Israele esclude i palestinesi dal programma di vaccinazione anti-COVID

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Mentre in Israele oltre il 12% della popolazione ha già ricevuto la propria dose di vaccino anti-COVID, i palestinesi di Cisgiordania e Gaza possono solo guardare e aspettare

Israele ha dato il via al piano vaccini lo scorso 19 dicembre e, attualmente, ne somministra circa 150.000 al giorno. Gli over 60, i sanitari e coloro clinicamente vulnerabili hanno la priorità. Secondo Our World in Data, il Paese ha già vaccinato un milione di persone. Ali Abed Rabbo, direttore generale del Ministero della Salute della Palestina, stima che i primi vaccini arriveranno probabilmente a febbraio. Si tratta del 20% promesso da Covax, il piano in partnership con l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Tuttavia, le dosi di questo piano non hanno ancora ottenuto l’approvazione “per uso urgente” dall’OMS, una precondizione necessaria per avviarne la distribuzione tra i palestinesi.

Il resto delle dosi dovrebbe arrivare grazie a degli accordi con le compagnie farmaceutiche. Tuttavia, sembra che l’Autorità Palestinese, a corto di denaro, non abbia ancora firmato alcun patto. Secondo alcuni documenti dell’OMS, i vaccini potrebbero non arrivare in alcuni Paesi fino al 2024. Un ritardo che potrebbe ledere allo sforzo globale di contenere il virus. “Nessuno è al sicuro finché non lo saranno tutti”, ha spiegato Rockenschaub.

I leader della Palestina e gli attivisti internazionali avevano già spiegato che Israele è obbligato ad assicurare che anche i palestinesi vengano vaccinati il più velocemente possibile. “La nazione ha la responsabilità morale e umanitaria di vaccinare la popolazione sotto il suo controllo” aveva dichiarato l’associazione no-profit Physicians for Human Rights in un appello ai leader israeliani. In una intervista, il ministro della Salute, Yuli Edelstein, aveva respinto tale dichiarazione, ma aveva riconosciuto che è nell’interesse di Israele espandere il piano vaccinale a una popolazione adiacente che invia migliaia di lavoratori nel Paese su base giornaliera.

Gli israeliani potrebbero quindi tornare a una forma di normalità entro i primi tre mesi di quest’anno, mentre i palestinesi rimarrebbero ostaggio del virus. Ciò potrebbe influenzare negativamente l’immunità di gregge in Israele.

La diffusione del coronavirus ha avuto un impatto particolarmente potente nei territori occupati.

In un certo senso, si può dire che i palestinesi che vivono nei territori occupati siano sempre stati condizionati dai coprifuoco e dalle restrizioni di viaggio dovute alla pandemia, considerando le chiusure decennali, coprifuoco passati, i blocchi dell’esercito israeliano, la confisca dei territori, le espansioni degli insediamenti e altri abusi che governano le loro vite quotidiane. Ma il virus ha intensificato queste difficoltà, colpendo un’economia che, almeno in Cisgiordania, stava migliorando stabilmente.

Invece, le condizioni economiche e di salute nella Striscia di Gaza, densamente popolata e a lungo bloccata, sono estremamente peggiori. Mancano i ventilatori e altri rifornimenti agli ospedali. Mentre i contagi da coronavirus andavano alle stelle, già a novembre i funzionari dell’OMS avevano avvisato che in meno di una settimana le strutture di Gaza sarebbero state sopraffatte.

Israele continua a esercitare un blocco quasi totale sulla Striscia, pertanto è difficile paragonarne la risposta al COVID-19 con quella della Cisgiordania. Il PIL dell’ultima zona stava crescendo prima della pandemia poiché l’Autorità Palestinese era stata in grado di capitalizzare l’industria del turismo, che è inesistente a Gaza.

Circa il 60% dei lavoratori della Cisgiordania e di Gaza sono occupati in ristoranti, alberghi, commercio o nei servizi. Quasi 75.000 persone ancora non sono riuscite a trovare un altro impiego, facendo arrivare la disoccupazione totale al 19% solo in Cisgiordania. Invece, a Gaza il mercato del lavoro era già stressato. A causa dei blocchi, alla zona è stata a lungo negata la possibilità di risollevarsi con l’industria del turismo, e la disoccupazione si attesta ora al 49%.

Bloccare il turismo e i viaggi ha avuto un beneficio: ha limitato la diffusione del coronavirus. Su una stima di 5 milioni di abitanti nei territori occupati, all’1 dicembre si sono registrati 98.850 casi di contagio da COVID-19 e 822 morti, secondo i dati dell’OMS. Dei 9 milioni di abitanti di Israele, 332.192 hanno contratto la malattia, mentre le vittime sono state 2.831.

La Palestina era più preparata alla prima ondata di coronavirus

Rispetto a molti altri governi, l’Autorità Palestinese partiva avvantaggiata nella gestione del COVID-19. Le forze di sicurezza l’anno scorso erano riuscite a convincere la comunità internazionale a fornire loro una simulazione di emergenza sanitaria pubblica. “I donatori mondiali hanno fornito un workshop, modellandolo sulla base di una potenziale epidemia di MERS (Sindrome Respiratoria mediorientale da coronavirus)” ha spiegato Tahani Mustafa, una ricercatrice presso la London School of Economics.

L’esercitazione è stata essenziale, dato che l’Autorità Palestinese già soffriva di opzioni logistiche limitate e di un settore sanitario ostruito, come risultato dell’occupazione militare israeliana. Infatti, l’esercito ha impedito l’acquisto di rifornimenti ed equipaggiamenti e limitato i viaggi necessari al personale sanitario per mantenersi aggiornato, secondo un resoconto di al-Shabaka, un gruppo di esperti globali palestinese indipendente.

Mustafa ha spiegato che la simulazione doveva includere un workshop per i rappresentanti dei vari rami del settore della sicurezza. In seguito, si sarebbe tenuta una serie di incontri per gli attori politici di rilievo, come ad esempio i rappresentanti del Ministero della Salute. Il primo workshop nel 2019 aveva illustrato le potenziali soluzioni a problemi anticipati – che includevano un nuovo coronavirus respiratorio.

Il COVID-19 ha colpito prima del secondo workshop. Avendo la prima simulazione fresca, l’Autorità Palestinese si è mossa velocemente, creando un centro operativo congiunto dove il Ministero della Salute, l’ufficio del primo ministro e i settori della sicurezza si sono riuniti per sviluppare procedure e norme e delegarle ad ogni governatorato della Cisgiordania.

Durante la prima ondata, c’è stata una risposta istantanea non appena si è verificata l’epidemia a Betlemme” ha spiegato Mustafa. “In pratica hanno chiuso l’area, e una o due settimane dopo l’intera Cisgiordania si è trovata in una rigida quarantena. Nei primi mesi hanno lavorato bene. Da quello che ho saputo, c’è stata molta coerenza pubblica, le persone rispettavano le regole”.

Ma a differenza della simulazione, la pandemia non è finita.

Sono passati dieci mesi da quei giorni di relativo successo, e una realtà diversa è emersa nei territori occupati. Posti di blocco di fortuna, fatti di pietre e polvere, dividono le città. I viaggi e il commercio con Israele sono stati limitati più del solito. E ci sono pochissimi kit per i tamponi e altri rifornimenti. Tutti i 350 ventilatori artificiali disponibili nei territori sono in uso già da luglio, secondo il Ministero della Salute. Allo stesso tempo, il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, premeva per l’annessione dei territori, una minaccia che preoccupava la leadership palestinese. Il governo, sopraffatto, ha dovuto chiedere aiuti finanziari all’estero, ma si è scontrato contro un muro.

In passato, la Palestina aveva fatto affidamento sugli Stati Uniti, che elargivano circa 400 milioni di dollari all’anno. Ma con l’Anti-Terrorism Clarification Act, firmato dal presidente Trump nel 2018, quei fondi sono diventati virtualmente nulli. Secondo questa legge, qualsiasi entità estera che riceva aiuti statunitensi deve acconsentire alla giurisdizione delle corti statunitensi circa le rivendicazioni anti-terrorismo. Ciò significa che l’Autorità Palestinese sarebbe soggetta alle cause relative al terrorismo della legge americana. Considerato che il governo paga uno stipendio alla famiglie dei cittadini palestinesi imprigionati in Israele, alcuni dei quali sono trattenuti per accuse di terrorismo, la Palestina aveva deciso di non accettare denaro statunitense.

Secondo i dati del Servizio del Ministero delle Finanze palestinese e un analisi del londinese Al-Araby Al-Jadeed, da marzo il governo non ha ricevuto alcun aiuto da parte dei Paesi arabi. Alcuni di essi avevano firmato degli accordi di normalizzazione con Israele (sostenuti dagli USA) durante quel periodo. Questi tagli sono giunti dopo un calo del 50% negli aiuti esteri oltre regione. Nel 2020, la Palestina ha ricevuto solamente 255 milioni di dollari, rispetto ai 500 milioni del 2019.

Quando ci chiediamo come i palestinesi possano vivere in queste condizioni, dobbiamo capire che per loro non è mai stato molto diverso” ha spiegato Yara Asi, dottoranda all’University of Central Florida. “Coloro che possono permetterselo continueranno ad avere accesso a strutture private di alta qualità. Oppure, condizioni permettendo, viaggeranno verso la Giordania, l’Egitto o altri Stati per cure più avanzate che non riescono ad ottenere nei territori. I palestinesi con basso reddito continueranno a fare affidamento alla sanità pubblica. Questa viene tenuta a galla da aiuti inconsistenti, dato che i fondi statunitensi sono essenzialmente terminati”.

Alcuni critici ritengono che la colpa sia anche del governo.

Un’analisi di al-Shabaka ha scoperto che circa 1 miliardo di dollari del budget dell’Autorità Palestinese è destinata al settore della sicurezza – colpevole di una lunga lista di violazioni ai diritti umani – che consuma più dei settori della salute, dell’istruzione e dell’agricoltura combinati. L’Associazione dei Dottori Palestinesi, un sindacato della Cisgiordania, a febbraio aveva scioperato per richiedere più investimenti governativi. I sanitari lamentavano la grande mancanza di staff e macchinari. La protesta era terminata il 6 marzo, per gestire la diffusione del coronavirus.

Alcuni esperti ritengono che come risultato di priorità conflittuali, mancanza di fondi e rifornimenti e la crescente minaccia dell’annessione abbiano fatto sì che l’Autorità Palestinese gestisse la pandemia estendendo le sue già severe misure di chiusura. Ciò ha solamente contribuito a frustrare di più i cittadini.

Inoltre, Mustafa ha spiegato che viaggiare non è complicato per tutti nella regione. I cittadini israeliani hanno ottenuto un pass non ufficiale per viaggiare in Cisgiordania. Ciò complica gli sforzi per la ripresa da parte dei palestinesi, in quanto la misura permette agli individui infetti di entrare e uscire dal territorio.

Considerando la mancanza di risorse, lo stato dell’economia, le restrizioni agli spostamenti e la continua minaccia di annessione, è difficile cercare di prevedere il futuro dei palestinesi. Nonostante il COVID-19 sia stato un terribile colpo, alcuni lo considerano in un contesto più ampio che include decenni di invasioni, occupazioni ed espropriazioni militati, strangolamenti economici e restrizioni alla libertà di movimento. “Nessuno nel mondo comprende la gravità di ciò che sta accadendo qui, fin quando non la si vede di persona” ha spiegato Alami, una cittadina israeliana che vive a Gerusalemme. “Il lockdown e il coprifuoco dovuti al virus sono temporanei. Ma la Palestina sta vivendo inn queste condizioni da ormai 70 anni. Il coronavirus è stato solo la ciliegina sulla torta”.

 

Traduzione di Chiara Romano da newsbook.com.mt, theguardian.com, washingtonpost.com, thenation.com

Immagine di copertina via thenation.com

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