Made in Slavery: l’atroce realtà delle fabbriche cinesi
Intervista all’attivista Eleonora Mongelli, che nel podcast Made in Slavery racconta la repressione della Cina nei confronti degli uiguri, minoranza turcofona musulmana che vive nella regione autonoma dello Xinjiang.
Da dove nasce l’idea di un podcast come Made in Slavery?
È da oltre dieci anni che seguo con particolare attenzione e preoccupazione la situazione relativa ai diritti umani in Cina. Le sistematiche violazioni dei diritti e delle libertà fondamentali perpetrate dal governo cinese, soprattutto nei confronti delle minoranze etniche, non sono cosa nuova. Tuttavia, di recente, abbiamo assistito a una nuova fase repressiva che riguarda soprattutto gli uiguri, la minoranza turcofona musulmana che abita la regione autonoma dello Xinjiang. Questa volta, i gravi abusi vengono commessi con la complicità dell’industria globale: si stima che almeno mezzo milione di uiguri sia sottoposto a pratiche di lavoro forzato e costretti a lavorare tra fabbriche e campi di cotone in Cina per produrre prodotti di cui ci serviamo tutti quotidianamente. In Made in Slavery ho voluto raccontare proprio questo aspetto della repressione sugli uiguri, portando all’attenzione dell’ascoltatore testimonianze dirette e voci di esperti. La speranza è che si prenda consapevolezza della necessità di difendere sempre e ovunque i diritti umani, nonché dei rischi che comporta stringere accordi commerciali con un Paese che non li rispetta e che non accetta neanche un dibattito sull’argomento.
Sfruttamento del lavoro e un potere economico che rende centinaia di migliaia di persone letteralmente schiave. In questo senso i brand internazionali come si comportano?
Sin dalla denuncia dell’ASPI – Australian Strategic Policy Institute – che nel febbraio 2020 ha pubblicato il report “Uyghurs for Sale” dal quale sono emerse prove della complicità di almeno 82 famosi marchi internazionali, tutte le aziende che si approvvigionano nello Xinjiang sono state messe al corrente dei fatti. Solo pochissime però hanno mostrato interesse alla questione. È il caso, ad esempio, di H&M, che ha dichiarato ufficialmente il suo sostegno in favore dei diritti degli uiguri e per questo è stata vittima di un’aggressiva campagna di boicottaggio da parte della Cina o come OVS, che di recente ha preso la decisione di non approvvigionarsi più dallo Xinjiang. Molti brand, invece, fanno finta di nulla, per timore di perdere i loro vantaggi commerciali in Cina. In altri casi, prendono addirittura posizione in favore della Cina, come ad esempio l’azienda di lusso tedesca Hugo Boss, che qualche settimana fa ha riferito alla clientela cinese che continuerà ad approvvigionarsi dallo Xinjiang, o la Inditex, società madre di ZARA, la quale ha rimosso la sua policy contro il lavoro forzato dal proprio sito web. Questo, rende ancora più urgente un dibattito, anche in Italia, sulla necessità di regolamentare la responsabilità delle nostre aziende che operano all’estero in materia di diritti umani.
Perché quello che sta accadendo nello #Xinjiang dovrebbe essere chiamato genocidio. Questi esperti lo spiegano chiaramente, in questa lettera all'Economist, al di là delle ideologie e delle chiacchiere. pic.twitter.com/xwA35JFXdr
— Eleonora Mongelli (@EleMongelli) April 11, 2021
La Cina fa di tutto per nascondere la repressione nei confronti degli Uiguri e ha addirittura distribuito nei cinema del Paese un musical ispirato al famoso film “La La Land”. Com’è possibile che nel 2021 ci siano ancora persecuzioni di questo genere?
La censura e la propaganda sono gli strumenti principali del governo cinese per difendersi dalle accuse e proseguire impunemente nel perpetrare questi abusi. La Cina continua a investire denaro in attività propagandistica, dentro e fuori il Paese, con l’obiettivo di far credere che quei terribili abusi siano invenzione dell’Occidente. Fino al 2018 Pechino negava addirittura l’esistenza dei campi di detenzione nello Xinjiang. In seguito poi alle evidenze delle immagini provenienti dai droni, ha dovuto ammettere la loro esistenza, affermando però che si tratta di campi di rieducazione che offrono formazione professionale per “pre-criminali”, ovvero coloro che secondo il governo potrebbero diventare terroristi. La verità è però venuta fuori, non solo dalle immagini satellitari, in cui chiaramente si vedono centinaia di campi, con torri di guardia e filo spinato, ma anche dalle testimonianze di chi è sopravvissuto a quella terribile detenzione e ha avuto il coraggio di denunciarla, come ha fatto Gulbahar Jalilova, di cui racconto la storia nel podcast. Ora spetta ai Paesi democratici prendere una ferma posizione e non rinunciare ai propri valori in cambio delle opportunità economiche del momento.
Oltre ad essere autrice di questo importante podcast, sei anche vicepresidente della Federazione dei Diritti Umani in Italia. Quali azioni state portando avanti attualmente per far cessare la ritorsione della Cina nello Xinjiang? L’Unione europea da questo punto di vista come si sta muovendo?
Il Consiglio europeo ha di recente approvato sanzioni ai sensi del nuovo regime, che segue il modello delle leggi Magnitsky, rivolte a quattro individui e a un ente responsabili dei crimini contro il popolo uiguro. Provvedimenti simili sono arrivati anche dal Canada, Regno Unito e Stati Uniti. Questo è sicuramente un passo importante, perché l’azione coordinata tra i vari Paesi che utilizzano questo tipo di sanzioni aumenta sicuramente la loro efficacia.
Resta invece aperta la questione del CAI. Il 2020 si è chiuso con un’intesa di principio tra Unione europea e Cina che, dopo 7 lunghi anni di negoziati, ha prodotto le linee guida che dovrebbero garantire reciprocità di trattamento per gli investitori europei e cinesi. Purtroppo qui l’Europa non ha posto alcuna condizione circa il rispetto dei diritti umani e in particolare sul lavoro forzato. Se il Parlamento europeo votasse questo accordo aumenterebbe ancora di più la complicità dell’Europa nei crimini commessi dalla Cina, poiché aumenterebbero i rischi che le aziende europee investano in catene di forniture che utilizzano il lavoro forzato.
Con la FIDU, insieme a numerose altre organizzazioni per i diritti umani, continueremo a fare pressioni alle istituzioni europee affinché non vengano siglati con tali presupposti, poiché significherebbe rinunciare alla difesa dei diritti umani, principio sancito dai trattati dell’Ue. Inoltre, ci auguriamo che anche l’Italia, così come hanno già fatto Stati Uniti, Canada e Paesi Bassi, prenda una ferma posizione sui crimini perpetrati dal governo cinese nei confronti degli uiguri, giungendo a parlare ufficialmente di genocidio. Su questo si sta discutendo proprio in queste settimane nella commissione Esteri della Camera.
A cura di Graziano Rossi