“Stai zitta” di Michela Murgia: uno strumento di lotta

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“Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo sentire più” è un piccolo manuale che può aiutare a costruire una nuova coscienza e portare ad un’uguaglianza di genere anche tramite il linguaggio.

Michela Murgia in una delle presentazioni del suo ultimo libro lo definisce uno strumento di lotta. “Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo sentire più, pubblicato a marzo 2021 da Einaudi, ha fatto da subito molto scalpore. È un libro scritto per le donne, per far aprire gli occhi su come anche certe frasi che a volte possono sembrare innocue, nascondano invece una discriminazione di genere protratta nel tempo.

Spesso si sottovalutano certi termini perché abituate a sentirceli ripetere, ma è proprio con le parole che silenziosamente il sistema patriarcale riesce a metterci gentilmente a tacere.

Senza dare nell’occhio, anzi il più delle volte facendoci sembrare anche importanti, facendoci dei complimenti, mettendoci in posizioni di comando nei posti di lavoro. Nella lettura di questo libro ci si trova a leggere di episodi realmente accaduti, sia a Murgia stessa che ad altre donne e l’autrice analizza cosa, dietro certe espressioni, si possa celare.

Nel maggio 2020 Murgia conduceva un programma radiofonico su Radio Capital con ospite il dottor Raffaele Morelli. Nel pieno di un dibattito in cui veniva incalzato a dare spiegazioni su alcune affermazioni, Morelli perde le staffe e all’improvviso intimò: “Zitta! Zitta e ascolta!.

Ma non è un caso isolato. Tra i politici salta agli onori di cronaca anche un episodio dell’allora ministro della Difesa, Ignazio La Russa, che inveisce contro la giornalista Concita De Gregorio che, inoltre, lui chiama “Concitina”. Come se con il diminutivo potesse diminuire anche l’importanza della giornalista.

Racconti di episodi così potrebbero essercene a bizzeffe. Intimare una donna a “stare zitta” non è solo maleducazione, ma è soprattutto sessista perché al contrario non capiterebbe mai.

https://twitter.com/chetempochefa/status/1368640280371605513

Si ha l’idea che una donna non possa avere un’opinione, addirittura se questa opinione va contro quella di uomo.

Come se la donna non possa saperne di più.

Questa è solo la prima delle altre frasi che Michela Murgia affronta all’interno del libro.

Mi soffermerò per questa recensione solo su alcune di queste, sperando che la lettura di questo breve articolo possa incuriosire per un ulteriore approfondimento dell’argomento.

Inoltre la lettura è accompagnata da bellissime vignette realizzate, come anche l’immagine di copertina, da Anarkikka, autrice, illustratrice e vignettista femminista .

Tra le frasi più ricorrenti troviamo “Ormai siete dappertutto”.

Quante volte ci sentiamo dire “Spaventi gli uomini…con quella cosa lì”. Oppure ancora “Brava e pure mamma!”, “Sei una donna con le palle!” e molte altre.

L’idea che ormai le donne siano presenti dappertutto è pura leggenda. Il dislivello è evidente in qualsiasi dato statistico ma si continua a negare l’evidenza del gender gap. Basterebbe prendere in mano anche i dati Istat per sfatare il mito dell’onnipresenza della donna nei vari settori della società.

Immagine via insidemarketing.eu

Dalle donne ci si aspetta sempre gentilezza. Tutti sanno che l’uomo appartiene alla parte razionale e la donna a quella relazionale.

Una donna che prende posizione, che non scende a compromessi, autorevole e che porta avanti le sue idee viene immediatamente additata come stronza, frustrata, arrogante. O meglio ancora, arriva il classico commento sessista che “quella ha bisogno di pene”.

Michela Murgia sostiene che nella concezione patriarcale la peggior sventura che possa capitare ad una donna è restare senza uomo perché questo la porterà a diventare arida e a non sperimentare mai la femminilità. Facendo leva su questo si cerca di far “star zitte” in modo meno evidente una donna. Ma si cerca comunque di farla rimanere al proprio posto, buona e tranquilla, magari tra i fornelli di casa.

Per spiegare il “Brava e pure mamma!” ci sono diversi episodi. Basti pensare a quando una scoperta scientifica viene fatta da una donna, subito i titoli di giornale devono evidenziare che la scienziata era una mamma. È successo nei titoli di articoli con la scoperta del tampone salivare per il COVID-19: “Le quattro mamme ricercatrici che l’hanno ideato”.

 

Una giornalista ha scritto che la maternità ha reso la sportiva Serena Williams una persona migliore. Come se l’idea del materno renda più umane le donne.

La donna potente, se è madre, sembra fare meno paura.

Il fatto che in una società ci si aspetti che la donna faccia la madre e la casalinga equivale ad una società non emancipata.

Anche quando ci viene detto “Sei una donna con le palle” come se fosse un complimento. Sul momento si può avere un moto di orgoglio ma poi, ragionandoci, alla fine è come rendere una donna simile a un uomo. Non solo per l’apparato genitale che le viene attribuito ma anche per il modo di usarlo: ovvero con potere.

Perché la maschilità deve essere il parametro per l’eccellenza?

Il paragonarci ad una guerriera, una leonessa, etc., è frutto del fatto che il sistema rispetta quello che teme e a noi viene richiesto di essere eroiche quando ai maschi basta essere sé stessi.

È proprio per questo motivo che bisognerebbe mettere in discussione il modello di potere. Il “farcela” in questa società, per una donna, è l’eccezione. Ma non dovrebbe esserlo. Sono anche molte le donne che vedono nelle declinazioni al femminile una riduzione.

Ne abbiamo avuto un esempio proprio al Festival di Sanremo di quest’anno, quando la direttrice d’orchestra Beatrice Venezi ha dichiarato di voler essere chiamata “direttore”.

Usare il maschile quando invece esiste la declinazione femminile è sostenere che stai occupando un posto che non è tuo, che è di un uomo. Perché un uomo gode di maggior rispetto in quello che fa.

Anche il tema delle declinazioni è affrontato da Michela Murgia.

https://twitter.com/chetempochefa/status/1368640792164720641

Chiunque nasce naturalmente in una società patriarcale ma bisogna avere gli strumenti per arrivare però ad una parità di genere che consentirà alle donne di non dover per forza lottare per far sentire la loro voce e non venire per forza sminuite quando si gode di autorevolezza.

Il cambiamento parte dalle basi e il linguaggio è alla base di una cultura.

Se non riusciamo a capire quali frasi possono offendere e quali dire in determinati contesti piuttosto che in altri, la strada è davvero in salita.

Non è assolutamente vero che non si può dire niente, ma semplicemente bisogna essere consapevoli dei contesti giusti in cui poter fare certe affermazioni.

E sicuramente alzare il tono di voce o zittire una persona non è parità.

Di recente si è aperto un dibattito acceso anche sul fenomeno definito “cat calling”. Il cat calling è, banalmente, quel fenomeno per cui riceviamo fischi per strada o complimenti non richiesti da sconosciuti.

Anche questo fa parte del contesto del linguaggio e del problema che si ha nel capire quando viene superato il limite. Il cat calling ripone radici nella cultura dello stupro, per cui un uomo si sente in diritto di rimarcare il proprio potere su una donna, solo perché è uomo.

È impensabile che possa sentirmi compiaciuta se da un finestrino qualcuno mi urla qualcosa, qualsiasi cosa sia. Piuttosto ci fa sentire prede.

Il libro “Stai zitta” è una lettura interessante per rendersi veramente conto del divario presente nella società in cui viviamo e per poter prendere coscienza di come poterlo superare.

Non è stando zitte che si cambiano le cose ma prendendo la parola.

Con la speranza che ha anche Michela Murgia, che fra qualche anno riprendendo in mano questo libro potremmo dire “per fortuna queste cose non le dice più nessuno”.

Giada Giancaspro

Stai Zitta e altre nove frasi che non vogliamo sentire più
Michela Murgia
Einaudi editore, 2021
pp. 128, € 13

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