Organsa, ammaliante romanzo di Mariangela Mianiti
La voce di Aurelia, che vede tutto come spesso i bambini sanno fare, racconta il trattamento iniquo riservato dai suoi nonni a sua madre e la sua forza silenziosa.
Organsa, romanzo di Mariangela Mianiti pubblicato a inizio 2021 da Il Verri edizioni, prende le mosse da una vecchia foto in cui Aurelia, voce narrante, vede ritratte sua madre Luisa e sua nonna. E nello sguardo di sua madre in quella fotografia ritrova tutte le vicende familiari cui ha assistito ancora bambina.
Comincia così il racconto della vita di Luisa, sposa a vent’anni incinta di Aurelia, la breve felicità lavorando come sarta a Parma dove la famigliola viveva in una piccola mansarda in cui pioveva dal tetto. 5 mesi in cui Luisa è stata felice, 5 mesi su un’intera vita. I suoi genitori e suo marito decidono, infatti, senza che lei possa avere la minima voce in capitolo, di comprare un casone nella Bassa parmigiana. Il casone comprende sia un’osteria e un piccolo alimentari sia l’appartamento in cui vivranno tutti insieme.
Luisa, cui piaceva la vita di città, lo scambio con le coetanee e il lavoro come sarta, si ritrova a vivere in un posto sperduto dove tutti parlano solo dialetto, a mandare avanti l’osteria e il negozio e a caricarsi di tutti i lavori domestici.
Di fatto i genitori di Luisa fanno della figlia la propria schiava.
Non c’è nulla dell’amore filiale nel loro rapporto. Non c’è gentilezza, non c’è cura, non c’è disponibilità alcuna. Neppure quando lei ha il ventre rigonfio per gravidanze in stato avanzato la sollevano dalle sue incombenze.
Luisa non si ribella, ma resiste. Resiste ritagliandosi il tempo per cucire. Resiste, parlando sempre un italiano perfetto in un contesto in cui tutti parlano il dialetto. Resiste, rifiutandosi di diventare come sua madre.
Diversamente dal marito, che nella sua durezza e irascibilità tende a riprodurre la durezza con cui è stato cresciuto da un padre che l’ha tolto da scuola per farsi aiutare nei campi, lei, Luisa, è diversa. Luisa crede nell’importanza dello studio per i propri figli, nell’educazione e nell’importanza di parlare in italiano come strumenti per aprire loro la strada per un futuro diverso.
Luisa piega la testa e accetta tutto, e solo per amore dei suoi figli la risolleva e pretende un trattamento diverso.
“Organsa” è un romanzo estremamente realista per questo e per altri aspetti. Il lettore desidererà a più riprese che Luisa si ribelli, spezzi il giogo e si appropri di una vita diversa. Ma nella realtà, quella della provincia degli anni ’50 e ’60 in cui anche il boom economico arriva attutito, le donne non si ribellano. Luisa è una delle tante donne che, ignorandone i sogni e i desideri, abbiamo visto invecchiare e invecchiate sedersi sull’uscio di paesini polverosi.
Eppure Luisa è a suo modo un’eroina. E il suo sacrificio (durante una breve fuga a Roma si delinea il probabile futuro di Aurelia se la madre non fosse tornata) consegna la libertà ai suoi figli. E interrompe così l’ereditarietà del male.
Il tutto è narrato attraverso la voce di Aurelia bambina che assiste al trattamento iniquo riservato dai suoi nonni a sua madre. Vede tutto, come spesso i bambini sanno fare, e racconta.
La narrazione fatta di capitoli brevi che scorrono via veloci si compone di piccoli quadretti, atti perfetti per le immagini che ci consegnano e per la lingua che ci regalano.
Ci troviamo infatti trasportati nella provincia di Parma, chilometri di piana con pochi agglomerati abitativi, strade nebbiose da percorrere lungamente in bicicletta. Argini di fiume da cui stare lontani e qualche cane randagio ad accompagnare il nostro ritorno a casa. Altalene rudimentali su cui volare in alto costruite tra gli alberi in giardino e vestiti stesi a prendere aria.
E sempre nell’ambito di quel realismo di cui è permeato il romanzo – da cui il destino di Luisa e le descrizioni perfette – tutti i personaggi parlano il dialetto. Qui Mariangela Mianiti è autrice di un esperimento riuscitissimo: la esatta traslitterazione del dialetto avrebbe inficiato l’esperienza di lettura, per questo ha optato per una sorta di riscrittura e re-invenzione di quel dialetto. Ne risulta una lingua altamente mimetica, per la costruzione delle frasi e l’inserimento di termini dialettali riconoscibili, ma di fatto inesistente nella realtà.
Il titolo, Organsa con la “esse” e non con la “zeta”, va a riprodurre la pronuncia tipica della Bassa parmigiana di questo tessuto ed evoca al contempo l’amore di Luisa per la creatività sartoriale e la sua stessa innata leggerezza ed eleganza.
Il risultato sono tante piccole scene perfette che si susseguono con una certa musicalità, come gli atti di un’opera lirica che restituiscono chiaramente ed efficacemente allo spettatore sentimenti diversi.
Organsa è stata veramente una bellissima scoperta, incrociata sul mio cammino di lettrice quasi per caso. Sono molto grata all’autrice, che tra l’altro è anche una bravissima giornalista, perché non si è arresa. In alcune interviste, infatti, ha raccontato come per circa dieci anni non abbia trovato un editore disposto a pubblicare questo romanzo, forse per timore della sperimentazione linguistica che esso contiene ma che assolutamente non ostacola la lettura ma la rende solo più vivida e coinvolgente.