«Lo smart working può generare ricadute positive su società e ambiente». Intervista al collettivo Bioccolo

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Perché il lavoro da remoto porta più benefici che danni? Ne abbiamo parlato con Federica, moderatrice su Twitter di Bioccolo, collettivo di discussione sullo smart working e sui diritti dei lavoratori.

Nelle ultime settimane è tornato alla ribalta l’argomento smart working, che dal lockdown del 2020 a causa della pandemia di COVID-19 è diventato parte integrante della nostra società. Di fatto, lo scorso anno si è trattato di “lavoro da casa”, e sempre più aziende oggi ne usufruiscono. Quali sono i suoi vantaggi?

Innanzitutto dobbiamo distinguere fra telelavoro, che è quello che abbiamo generalmente fatto da casa, e smart working. Il telelavoro replica a casa orari e procedure del lavoro in presenza; lo smart working prevede invece l’autonomia del lavoratore nello stabilire tempi e luoghi del lavoro (si lavora quindi generalmente per obiettivi definiti insieme al datore di lavoro). Già il telelavoro presenta vantaggi per i lavoratori, perché si eliminano i tempi del “commuting” (spostamento per e dal posto di lavoro). Tuttavia in questo periodo si sono evidenziati anche molti lati negativi: il lavoratore spesso ha dovuto usare strumenti propri (computer e telefono) con le proprie utenze, e non è stato rimborsato; è rimasto vincolato all’orario d’ufficio e anzi spesso ha “sforato” (anche perché in molti casi gli vengono fissate videoriunioni a tarda sera o nel weekend “tanto sei a casa…”). E tuttavia molte aziende non riconoscono né straordinari né buoni pasto se non c’è presenza in ufficio, sicché gli stipendi risultano nei fatti decurtati anche pesantemente: questo nonostante le aziende stiano registrando grandi risparmi anche per il solo fatto di avere gli uffici chiusi.

Da quando il nostro account si è attivato, stiamo chiedendo che lo smart working (o meglio lavoro da remoto, come lo chiama tutto il mondo) venga normato in modo da riconoscere parità di paga e di benefit a parità di lavoro, diritto alla disconnessione, rimborsi e/o sgravi fiscali per compensare le spese aumentate per le utenze. In buona sostanza, chiediamo che i vantaggi dello smart working siano equamente distribuiti tra lavoratori e aziende. Per queste ultime, oltre alle spese di gestione inferiori a cui ho già fatto cenno (pensa a quanto si risparmierebbe non dovendo mantenere una sede spaziosa e “di prestigio” in centro), c’è anche da considerare che secondo tutti gli studi fatti lo smart working garantisce maggiore produttività. Per i lavoratori c’è il vantaggio di poter organizzare il proprio lavoro con maggiore autonomia, il che garantisce un migliore bilanciamento tra tempi di vita e tempi di lavoro, più spazio per famiglia e interessi personali, vantaggi economici (meno spese per i trasporti, ad esempio) e anche più soddisfazione professionale. Non meno importante, lo smart working agevola i lavoratori fragili, riduce le discriminazioni ed è un deterrente alle molestie sul luogo di lavoro. E poi ci sono i vantaggi per la società: meno traffico e inquinamento, città più vivibili, consumi di prossimità incentivati, periferie e piccoli borghi rivitalizzati.

Il ministro per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione Renato Brunetta è convinto che una riduzione del ricorso allo smart working nel settore pubblico possa dare un’ulteriore spinta alla crescita della ricchezza nazionale. Qual è la posizione del vostro collettivo? Non sarebbe meglio focalizzarsi anche su altri aspetti, per esempio l’attenzione all’ambiente?

Noi riteniamo che proprio lo smart working possa dare una spinta decisiva alla crescita della ricchezza nazionale, incentivando la modernizzazione di competenze, strumenti, infrastrutture e servizi; che possa distribuire questa ricchezza sul territorio, invece di concentrarla solo in certe città e in certi quartieri; che possa generare ricadute positive sulla società e sull’ambiente (abbiamo visto cosa è successo dopo soli pochi giorni di lockdown); e che al contrario, il “ritorno alla normalità” spesso e volentieri invocato dal ministro sia in effetti un ritorno a rendite di posizione che non sono più sostenibili da diversi punti di vista: quelle di bar e ristoranti del centro che hanno prosperato sulle pause pranzo, quelle degli immobiliaristi che hanno investito sui grattacieli adibiti a uffici, e anche quelle di dirigenti incapaci di valutare l’effettivo rendimento dei loro collaboratori, ma solo di constatarne la presenza alla scrivania. Stiamo facendo presente che un’economia fondata sul fatto che i lavoratori spendano gran parte del loro stipendio per andare a lavorare non solo non è etica, ma è destinata a crollare su sé stessa.

Lo scorso 23 agosto sul vostro account Twitter avete lanciato un sondaggio “informale” sul numero di dipendenti di aziende che è tornato a lavorare in presenza. Che tipo di risposte avete ottenuto?

Tengo innanzitutto a sottolineare che il sondaggio non ha una base statistica misurabile perché hanno partecipato 230 utenti Twitter “random”. Di questi, ben il 41% ha detto di lavorare in modalità “ibrida” (ossia con almeno un giorno di telelavoro); il 37% lavora da remoto (ma in molti casi lo faceva già prima del 2020) e il 22% è in presenza. La percentuale di chi è tornato in presenza a tempo pieno mi ha sorpreso: pensavo fossimo di più. Ma bisogna tenere conto che, in fondo, anche il modello “ibrido” è un rientro in presenza con il “contentino” di qualche giorno di telelavoro. Non è smart working a tutti gli effetti.

In un’intervista rilasciata lo scorso dicembre, Domenico De Masi, professore emerito di Sociologia alla Sapienza Università di Roma, ha dichiarato che alla scelta di effettuare in massa smart working “si poteva arrivare già prima, più gradualmente e razionalmente, invece di predisporre tutto in fretta e furia”. È effettivamente così?

Direi proprio di sì e lo dimostra il fatto che molte aziende, anche in Italia, sono “full remote” da anni. Per non parlare di tanti liberi professionisti che lavorano con successo da casa: o meglio, da dove è necessario. Lo smart working, infatti, non è “lavoro da casa” ma è lavoro dove serve quando serve: in ufficio se c’è da fare una riunione in presenza, dalla sede di un cliente, dal centro direzionale o da un piccolo casale in campagna, in doppiopetto o in pigiama. Se gli obiettivi sono rispettati, e il lavoratore vive meglio, non è un vantaggio per tutti?

Intervista a cura di Graziano Rossi

Immagine di copertina via Unsplash

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