“Macello” di Maurizio Fiorino: l’infelicità è una gabbia

Tempo di lettura 4 minuti
“Macello” è un romanzo breve, intenso, duro, diretto. Fiorino ci parla delle difficoltà di crescere, di credere nei nostri sogni, di capire chi siamo e come amarci. Ma scordatevi l’ironia del precedente lavoro.

Bruttezza. Bruttura. Disordine. Sfacelo. Distruzione. Dolore. Morte. Questo evoca la parola macello inteso come luogo in cui si ammazzano le bestie. Non un luogo gradevole, non un luogo di bellezza, di vita e vitalità. 

Il padre di Biagio fa il macellaio e il macello del titolo chiarisce immediatamente la centralità in questo romanzo del luogo e della figura paterna. E al contempo evoca il disordine e la bruttezza della vita di Biagio. (Decisamente meno efficace l’immagine di copertina)

<<Quando ti vidi in mezzo a tutta quella puzza, che prendevi a pugni le carcasse appese ai ganci, pensai che in vita mia non avevo mai assistito a nulla di tanto triste. E tuo padre sembrava un pazzo>>.

Una vita triste e brutta priva di punti di riferimenti, una vita immobile. Come del resto il macello che alle povere bestie che vi sono portate non concede ulteriori tappe. Si può andare avanti sì, ma solo fatte a pezzi. Letteralmente.

Le vicende, narrate dalla voce di un Biagio adulto, coprono prevalentemente gli anni Settanta e Ottanta e raccontano di un Biagio bambino e poi adolescente. 

Cresce con il padre, Bruno, lui per primo uomo infelice, lui che voleva essere brigante e quindi libero e si ritrova giovanissimo padre e vedovo. Una rabbia latente, un’incapacità di fondo di dimostrare affetto.

La madre muore giovanissima. Biagio non ha goduto dell’affetto materno in un’assenza neppure suppletivamente riempita da foto della madre o dai racconti che la riguardano: il padre non ne parla mai, in casa non c’è nemmeno una foto.

La vita di Biagio bambino è solitudine, abbandono, anaffettività. Desiderio inesaudito di essere visto. 

Spesso mi sono tornate in mente le volte in cui da bambino mi nascondevo dietro la porta del bagno a spiare mio padre, domandandomi il perché di quella perversione. Sono arrivato alla conclusione che desideravo soltanto essere scoperto. Sarebbe stato umiliante, ma avrebbe stabilito che c’ero.

Si innesta in Biagio l’idea di non poter avere o non meritare le cose belle (né una figura materna, né il libro d’arte regalato da Elsa – e che tanto gli piaceva  – che questa si riprende strappandolo di mano al bambino). Di non essere degno della felicità. Un’idea ovviamente non consapevole che lo porta però a tutta una serie di scelte di infelicità.

E nemmeno l’improvvisa scomparsa del padre, nel senso che un bel giorno il padre prende e se ne va, è elemento sufficiente per indirizzare la propria vita su un altro binario.

È un altro abbandono, è un’altra solitudine. Biagio esplode di rabbia, distrugge la macelleria paterna, fugge a Roma. Ma la gabbia, l’infelicità, l’incapacità di concedersi qualcosa di bello nella vita si è innestata così profondamente in lui che in realtà continua ad intrappolarlo. 

E quindi, ancora giovanissimo, matrimonio e lavoro. Infelice lui e infelice la moglie su cui riversa a sua volta rabbia e cattiveria come il padre aveva fatto con lui. 

“Se sono sparito come ha fatto lui, vuol dire che manco a me importa di quello che ho lasciato” le risposi con una cattiveria di cui un attimo dopo non riuscii a capacitarmi.

È un circolo vizioso di frustrazioni sfogate sugli altri: Bruno su Biagio, Biagio su Sara, i paesani su Vittorio ovvero il diverso del paese che prova a vivere la sua vita. Ma lo fa davanti a tutti. E questo, in un paese del sud degli anni Ottanta – brutto anch’esso – , di quelli quasi congelati nel tempo i cui abitanti sono a loro volta intrappolati in una gabbia di grigiume e infelicità, in cui la vicina di casa Lia, esperta di bassa magia, toglie il malocchio, in paese questo non va bene. E Vittorio a più riprese viene preso a mazzate.

In questo contesto essere coraggiosi e perseguire la propria felicità è un sogno difficile da sognare, figuriamoci da realizzare. È molto più semplice scomparire come ha fatto il padre.

Non ce la faceva più e quel giorno ha deciso di sparire. Si è tolto il grembiule, è salito in macchina e se ne è andato.

O rimanere sull’orlo del burrone attratti dallo scuro giù in fondo.

L’aveva capito Alceo, unico personaggio insieme a Vittorio a dimostrare un altro modo di affrontare la vita, che ritrae Biagio come un funambolo. 

Non c’è l’ironia di Ora che sono nato, romanzo di Maurizio Fiorino da noi recensito e che aveva concesso ai lettori più di una bella risata e qualche sorriso. E un po’ manca. Macello è un romanzo breve, intenso, duro, diretto. Fiorino ha scelto un’altra strada per parlarci delle difficoltà di crescere, di credere nei nostri sogni, di capire chi siamo e come amarci. Meno solare ma tristemente efficace.

@vivileggiama

Macello
Maurizio Fiorino
Edizioni e/o, 2021
pp. 160, € 15

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