Perché il nome del traduttore andrebbe messo in copertina
Gli editori evitano di dar luce a chi sceglie ogni singola parola dei libri che offrono al pubblico inglese. Questa mancanza di trasparenza è sbagliata e ingiusta.
“I traduttori sono come i ninja. Se ti accorgi di loro, non sono bravi”. Questa citazione, attribuita all’autore israeliano Etgar Keret, prolifera nei meme: a chi non piace una citazione arguta con i ninja? Eppure questa idea – che un traduttore letterario possa fare, in qualsiasi momento, un attacco a sorpresa, e che in ogni momento inganniamo il lettore secondo un elaborato complotto mercenario – è fra le più dannose in letteratura.
La realtà della circolazione internazionale dei testi è che, nei nuovi contesti, è compito dei loro traduttori scegliere ogni parola che conterranno. Se leggete Flights, del premio Nobel Olga Tokarczuk, in inglese, le parole sono tutte mie. I traduttori non sono come i ninja, ma le parole sono umane, il che significa che sono uniche e non hanno equivalenti diretti. Lo si può vedere in inglese: “cool” non è identico a “chilly”, benché simile. “Frosty” ha altre connotazioni, altri usi; lo stesso vale per “frigid”. Selezionare una di queste opzioni in sé non ha senso; bisogna soppesare nel contesto della frase, del paragrafo, del tutto, ed è il traduttore a farsi carico, dall’inizio alla fine, della costruzione di una rigogliosa comunità lessicale che è al tempo stesso autonoma e in relazione profonda con il suo modello.
Fin dagli inizi del mio MFA in traduzione letteraria alla University of Iowa, precisamente vent’anni fa, ci sono stati molti cambiamenti positivi nel modo in cui i traduttori vengono pagati e percepiti. Si prenda ad esempio l’International Booker Prize, che dal 2016 divide la generosa somma di 50.000 sterline fra autore e traduttore, riconoscendo così con onestà il lavoro come un’entità fondamentalmente collaborativa che, come un bambino, necessita di due procreatori per esistere.
Nonostante straordinari progressi di questo tipo, c’è ancora tanto che può migliorare. Abbastanza spesso i traduttori non percepiscono royalties – io non ne percepisco negli Stati Uniti per Flights – e un numero sorprendente di editori non menziona i traduttori sulle copertine dei libri. È il posto in cui va sempre il nome dell’autore; è anche quello in cui si trova il titolo. Le persone tendono a sorprendersi quando dico questa cosa, ma dando un altro sguardo all’International Booker capirete cosa intendo.
Da quando nel 2016 è stata lanciata la nuova versione del premio, neanche uno dei sei libri vincitori aveva il nome del traduttore in copertina. Granta non citava in copertina Deborah Smith; Jonathan Cape non citava Jessica Cohen; Fitzcarraldo non citava me; Sandstone Press non citava Marilyn Booth; Faber & Faber non citava Michele Hutchison. At Night All Blood is Black di David Diop, vincitore nel 2021 per Pushkin Press, non citava Anna Moschovakis sulla copertina, benché tale copertina ospitasse citazioni da tre fonti nominate. Quattro nomi, in altre parole, sulla copertina di un libro di cui Moschovakis ha scritto ogni parola. Ma il suo nome sarebbe stato di troppo.
L’assunto di fondo per molti editori sembra essere che i lettori non si fidano dei traduttori e che un libro non lo comprano se sanno che si tratta di una traduzione. E però non è proprio uno stratagemma di questo tipo a generare diffidenza, piuttosto che la traduzione in sé? Ciò che tendenzialmente spinge un lettore a prendere un libro sconosciuto è la sensazione eccitante di stare per intraprendere un interessante viaggio con una guida qualificata. Nel caso delle traduzioni, le guide sono due al prezzo di una, un incredibile – “sorprendente”, “eccezionale”, “fantastico”, “favoloso” – affare.
Abbiamo terribilmente bisogno di maggior trasparenza a ogni livello della produzione letteraria; questo non è che un esempio, per quanto ai miei occhi urgente. I traduttori non sono come i ninja. Ma siamo quelli che controllano il modo in cui una storia è raccontata; siamo quelli che creano e mantengono lo stile del libro trapiantato. In generale siamo anche i più affidabili difensori dei nostri libri, e ci prendiamo cura di loro meglio di chiunque altro. Le copertine semplicemente non possono continuare a nascondere chi siamo. È una mossa sbagliata, ci toglie la responsabilità delle nostre scelte, e nel suo deliberato offuscamento è una pratica irrispettosa non solo nei nostri confronti, ma anche nei confronti del lettore.
Traduzione di Sara Concato via theguardian.com (articolo a cura di Jennifer Croft)
Immagine di copertina via twitter.com/readingagency