“Brutta” di Giulia Blasi, per liberarsi dall’obbligo di essere belle per essere considerate

Tempo di lettura 5 minuti
Giulia Blasi nel suo nuovo libro racconta del proprio corpo, del rapporto con esso e di come la società ti possa far sentire ingabbiata in un corpo che non vuoi. Un libro che dovrebbero davvero farci leggere fin da ragazzine.

Con il suo nuovo libro, “Brutta. Storia di un corpo come tanti“, pubblicato da Rizzoli il 14 settembre, Giulia Blasi, scrittrice, giornalista e speaker radiofonica, racconta la storia di un corpo, il suo. Un corpo che, come dice il titolo stesso, è “un corpo come tanti” anche se ognuno ha una storia diversa da raccontare.

Perché parlare di corpi? Perché, citando l’apertura del libro, “se sei donna non ti puoi mai dimenticare di avercelo, un corpo. Puoi al massimo prendere decisioni su come e quanto mostrarlo, e puoi essere sicura che non saranno mai soddisfacenti, come puoi essere sicura che tutti vorranno avere un’opinione in merito”.

Blasi racconta, in un dialogo diretto con il lettore, gli eventi che hanno segnato la percezione del proprio corpo e di come questo ha segnato le tappe della sua vita. Con una scrittura semplice, scorrevole, a tratti ironica, senza filtri, l’autrice ci fa rispecchiare tutte nei passaggi del suo libro.

Un libro che diventa una sorta di strumento che sdogana il tabù della bruttezza, senza cadere nella retorica del “body positive”, nato come strumento di liberazione dei corpi ma strumentalizzato dal sistema capitalista per vendere prodotti di bellezza e caduto poi nell’imposizione di “doverti amare”. Un imperativo in più, una ulteriore regola che una donna deve seguire, perché la società ti vuole bella e che ti ami.

Il corpo femminile è costantemente giudicato e strumentalizzato. E noi viviamo con questa consapevolezza, ci comportiamo in base a ciò che vorremmo che gli altri vedessero di noi, introiettiamo con il tempo degli automatismi, come quello di guardarci allo specchio dopo la doccia e controllare quanti rotolini abbiamo, e questi tarli ce li portiamo per tutta la vita.

Negli anni Ottanta, racconta Blasi nel libro, solo i maschi potevano pensare ai propri corpi come a qualcosa che poteva essere goduto, alle ragazze nessuno parlava di piacere. E questo, in realtà, ancora adesso.

Fin da quando siamo bambine siamo bombardate da standard di bellezza stabiliti dalla società, dalle case di moda e dalle aziende di cosmetici, dalle riviste femminile e tutto questo bombardamento ci porta a non sentirci mai abbastanza, mai all’altezza.

Se siamo grasse vogliamo essere magre, se siamo magre vogliamo gli addominali, se non abbiamo le tette vorremmo aumentarcele, se stiamo invecchiando poi, è la fine.

E per la maggior parte del tempo alle persone non frega niente che tu sia intelligente o abbia qualcosa da dire, se non appari “bella” come la società vorrebbe, sei comunque in disparte. Attenzione però anche al rovescio della medaglia, la bellezza in certi ambiti può essere un’arma a doppio taglio.

“Brutta” è un ottimo spunto di riflessione per aprire gli occhi su modalità di comportamento che sono sempre state normalizzate. Quante volte abbiamo sentito dire che la conformazione del corpo è “a pera”, “a mela”, le tette sono “i meloni”, il culo “a pesca” (e la lista potrebbe andare molto oltre). Siamo considerate commestibili, ci abbelliamo per essere divorate. La donna come qualcosa da mangiare, come al solito ridotta ad un oggetto di cui disporre a piacimento.

Blasi lo dice chiaramente: essere bella è una necessità sociale. “Brutta” lo si dice ad una donna per ferirla, per rimetterla al proprio posto, per umiliarla.

Chi stabilisce i parametri di bellezza nella società? I maschi con il “figometro”. È lo sguardo maschile quello a cui abbiamo concesso troppa importanza.

Il nuovo libro di Giulia Blasi è prezioso, un libro che si dovrebbe comprare, regalare, consigliare il più possibile. Per prendere quella consapevolezza che ci permetterebbe di camminare prescindendo dal nostro corpo, per quanto molto difficile possa essere.

Occupare spazio da brutte, sentendosi brutte, sapendosi brutte e fottendosene altamente, quello è l’obiettivo.

Abbiamo avuto il piacere di porre alcune domande all’autrice Giulia Blasi.

Intanto, Giulia, complimenti davvero per questo libro. Un racconto così aperto sul proprio corpo non è semplice da far uscire e, dalla lettura, si capisce che hai fatto i conti tutta la vita con quello che non ti piaceva di te e di come ti faceva sentire. Come hai trovato il coraggio (perché ci vuole anche questo) per raccontarti così?

Il monologo di EROSive da cui nasce il libro era già un avvicinamento a quel tema. Sono adulta, non ancora abbastanza vecchia da essere completamente distaccata da certe dinamiche ma abbastanza da saper mettere una distanza fra me e il giudizio sul mio corpo. E mi piace molto far ridere la gente. Per me è stato un passo naturale, anche liberatorio, ma tenendo sempre fermo il messaggio principale: il punto non sono io, non è la mia liberazione individuale, è la liberazione collettiva dall’obbligo di essere belle per poter essere considerate.

Quando si esce dalle difficoltà di adolescente “brutta” ci si imbatte nel mondo del lavoro. Molti annunci richiedono “bella presenza”.

La “bella presenza” esplicitamente richiesta è comunque richiesta in maniera implicita: l’espressione di quella richiesta è solo l’espressione della naturalezza con cui alle donne viene chiesto di essere prima di tutto decorative, piacevoli alla vista. Le donne grasse sanno benissimo che per loro lavorare a contatto con il pubblico è quasi impossibile in alcuni settori, specialmente quelli legati alla moda, alla bellezza, al benessere. Chiedere che non venga specificato “bella presenza” non rimuove il problema: quella “bella presenza” (gioventù, magrezza) costituirà comunque titolo preferenziale. Per gli uomini non vale la stessa cosa, principalmente perché ci sono meno lavori maschili in cui la bellezza del corpo sia in primo piano o sia parte del lavoro stesso: le hostess sono a maggioranza donne, è dalle donne che ci aspettiamo che si comportino come decori d’arredo parlanti.

Arriverà mai il momento nella nostra società che del “figometro” non ce ne importerà più nulla?

Probabilmente no, ma la liberazione non arriverà dalla ribellione individuale. Arriverà solo quando e se saremo in grado di uscire dalla logica del capitalismo che attacca cartellini del prezzo a tutto e tutti, e che anche ai corpi attribuisce un valore spendibile a livello sociale. Ne usciremo quando l’attrazione, la seduzione e la bellezza saranno solo un discorso privato, fra persone, e non un discorso pubblico, e quando le donne (e in generale le minoranze, i soggetti deboli, tutti quelli che preferiamo non vedere a meno che non ci diano soddisfazione estetica) potranno vivere nel mondo senza temere costantemente per la propria incolumità, con la stessa pienezza di ogni altro essere umano.

Giada Giancaspro

Brutta, storia di un corpo come tanti
Giulia Blasi
Rizzoli, 2021
pp. 160, € 16

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