Caso Aung San Suu Kyi: l’accanimento della giunta birmana

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A distanza di circa un anno dal colpo di stato, i militari continuano a portare avanti la loro crudele repressione, rappresentata simbolicamente dalla nuova condanna pronunciata contro il premio Nobel per la pace.

La giunta birmana, con l’avvicinarsi della prima ricorrenza del colpo di Stato che le ha permesso di conquistare i pieni poteri il 1° febbraio 2021, ha rimarcato il suo accanimento contro l’opposizione, scrive Le Monde il 15 gennaio, inasprendo la pena nei confronti della loro leader, Aung San Suu Kyi. Il premio Nobel per la pace, 76 anni, si è vista infliggere, il 10 gennaio, quattro anni supplementari per possesso illecito di walkie-talkie.

Questa nuova sentenza porta a sei il numero di anni di detenzione che deve scontare; era già stata condannata a quattro anni, nel dicembre 2021, per violazione delle regole Covid, pena in seguito ridotta a due anni dai generali. Varie sono le responsabilità che pesano su di lei che, di fatto, ha portato il governo civile birmano, in compresenza con i militari, fino al colpo di stato del 1° febbraio.

Tale accanimento non è affatto nuovo per Aung San Suu Kyi: negli anni tra il 1989 e il 2010, è stata privata della libertà dalle giunte militari precedenti e ha dovuto scontare una pena di quindici anni agli arresti domiciliari presso la sua casa di Rangoon. È considerata come la spina nel fianco del regime e agli occhi di una soldatesca paranoia diventa una “traditrice”. Oltre ai suoi studi in Gran Bretagna e il matrimonio con un britannico (deceduto mentre lei era in detenzione), la democrazia che vuole promuovere è una sorta di scorciatoia per la disgregazione della nazione.

Il simbolo di una nazione oppressa

Tuttavia, la sua ostinazione e la sua forza l’hanno resa più popolare che mai in Birmania: per far tornare in vita la transizione democratica, incarnata da lei e dal suo partito dal 2016 al 2021, dei giovani birmani continuano a scendere per le strade, sfidando gli spari dei militari, insieme ad altre persone che sono entrate a far parte di una resistenza armata.

Guidati da un governo d’unità nazionale (NUG) in esilio, queste “forze di difesa popolare” hanno inflitto delle perdite considerevoli all’armata che a sua volta ha reagito ancora più brutalmente, come ha dimostrato l’orribile massacro del 24 dicembre, al termine del quale sono stati ritrovati trentacinque cadaveri di civili all’interno di alcune macchine incendiate in una località dello Stato Kayah.

I governi occidentali non danno più il loro sostegno ad Aung San Suu Kyi. Noi conosciamo il motivo: le rimproverano di non aver pubblicamente condannato la pulizia etnica dei civili rohingya compiuta dalle armate birmane nell’ottobre 2016 e successivamente nel 2017. Si tratta senza dubbio di un compito morale, ma la responsabilità di queste atrocità non è di certo di Aung San Suu Kyi: piuttosto è il capo delle armate e generale putschista Min Aung Hlaing che non aveva smesso in quel periodo di alimentare la supremazia birmana e buddista.

I massacri dell’armata sono avvenuti dopo l’iniziativa da parte di Aung San Suu Kyi di affidare al precedente segretario delle Nazioni Unite, Kofi Annan, la direzione di una commissione consultiva per lo Stato Rakhine al fine di trovare delle soluzioni alle tensioni interetniche tra buddisti e musulmani. La sorte della dirigente dell’opposizione birmana non dovrebbe lasciare le democrazie indifferenti. Lei rimane il simbolo di una nazione oppressa dal momento dell’indipendenza della Birmania avvenuta nel 1948.

Hun Sen, Primo ministro cambogiano, incontrando Min Aung Hlaing, premier della Birmania, ha rotto, unilateralmente, l’isolamento che l’Associazione delle Nazioni Asiatiche del Sud-est, l’Asean, ha tentato di imporre alla giunta birmana. Sapendo che lui proviene dal regime di Phnom Penh, tutto questo non è affatto sorprendente. Ciononostante, spetta ai Paesi democratici non far condannare il popolo birmano all’oblio.

Traduzione di Daniela D’Andrea via Le Monde

Immagine di copertina via twitter.com/KenRoth

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