“Un paese ci vuole”. Lucciano, dove passato e presente convivono e ci restituiscono un tempo più umano
Lucciano, frazione di Pieve Torina nelle Marche, è uno dei tanti piccoli borghi antichi in Italia che ogni anno, purtroppo, perde abitanti.
Soprattutto a seguito degli effetti devastanti del terremoto del 2016 nel Centro Italia, i suoi pochi abitanti hanno fatto estrema fatica a mantenere vivo il borgo, ma non lo hanno mai abbandonato e, anzi, proliferano le iniziative e le attività volte a richiamare persone anche da fuori.
Ma perché è così importante per tutti noi che questi piccoli borghi, con tutta la loro storia, natura, tradizioni ed arte non scompaiano?
Ce lo spiega la psicologa Laura Salvi, partendo dalla sua esperienza personale.
“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via.
Un paese vuol dire non essere solo, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”
Casare Pavese – La Luna e i Falò
Oggi si parte.
Chiudo lo studio, chiudo all’ascolto degli altri e finalmente ascolto me stessa.
È molto presto, sono sola, la città è ancora addormentata; la mia macchina è piena di piante che pianterò nelle Marche.
Queste piante partono con le loro radici accartocciate in un vaso, stipate nella mia auto qui nel Lazio, per trovare la loro casa definitiva in un altrove per me così prezioso. Portano un po’ di ciò che io sono a Roma in quello che io sono nel paese della mia infanzia, nel paese dei miei genitori.
Non sono solo piante ma ricordi, emozioni…
Il sole si sta alzando, si preannuncia una bella giornata.
Lucciano non delude mai le sue promesse.
Sto imboccando l’autostrada, davanti a me ho un paesaggio ampio, familiare, eppure sempre nuovo.
Guidare in solitudine lungo strade conosciute sblocca i pensieri, le sensazioni e le riflessioni.
Ogni volta che vado a Lucciano è come se facessi un viaggio nel tempo, che permette di entrare in contatto con una dimensione a cui raramente diamo importanza; eppure, da sempre ci abita: l’infanzia dei nostri genitori.
Esco a Magliano Sabina e vado verso Spoleto, davanti a me c’è il maestoso ponte romano.
Si sale poi verso una strada in salita con un po’ di curve, sulla sinistra tra delle querce secolari già vedo Lucciano.
Nei miei ricordi la salita era una prova, un rito da celebrare con i miei cugini: farla in bicicletta, veloci, a perdi fiato, in una gara a chi arriva prima.
Dopo il ponticello ci si alzava in piedi perché la salita si faceva più ripida, il fiato più corto, quasi svanito ma il desiderio di conquista era più forte e, pedalata dopo pedalata, si arrivava a dove la strada diventa più dolce e, tra le secolari querce, si vedeva e si vede ancora oggi Lucciano.
Era per noi tutti un rito d’iniziazione, lo stesso compiuto dai nostri genitori alla nostra età.
Riaffiora insieme ai ricordi il senso di orgoglio, di riuscire a completare quella salita, cercando di stare dietro al più famoso della nostra famiglia, G. Marini.
Lo guado tra le querce secolari che hanno visto crescere me, i miei genitori, e chissà quante generazioni prima delle nostre, e Lucciano sembra aspettarmi.
Ora è quasi disabitato ma quello che mi attira di più non è ciò che è rimasto in luce, ma quello che c’è in ombra.
Seguo morbidamente la strada, guidando a ritmo stabile e riaffiora in me il ricordo del camioncino del fornaio Fronzi, che veniva a portare il pane e altri prodotti da forno in paese.
Che festa! Tutti gli abitanti, e soprattutto noi bambini, non vedevamo l’ora di avere tra le mai uno dei suoi maritozzi, un dolce mai provato prima!
La piccolezza del paese era per noi un pregio e ci consentiva una libertà che per il resto dell’anno non sperimentavamo.
D’estate il dentro diventava fuori: sedie sugli usci, donne che chiacchieravano, bambini che giocavano…
Ora ho messo una panchina nel giardino di Marco, è dedicata ai suoi genitori, nella spalliera ho fatto mettere una targhetta con i loro nomi: Scape’ e Giuseppa.
Mi ci siedo chiudo gli occhi e sento di stare nel posto più sicuro al mondo, in cui nulla di negativo mi può accadere. Sono sola ma non in solitudine
Forse è una illusione ma mi fa piacere crederci e allora la trattengo forte perché rimanga con me e così i battiti del cuore rallentano, le membra si rilassano e mi assale una sorta di torpore.
Faccio quasi fatica a comprendere il mio stato d’animo, tanta è la quiete da cui sono presa.
Bisognerebbe che ognuno di noi avesse un paese da cui ritornare, una panchina su cui stare, un giardino da coltivare…
Dovremmo tutti avere dei momenti dentro un tempo diverso, non più frenetico e convulso, ma più vicino alla nostra umanità.
Un paese che sia un rifugio, uno spazio dove raccogliere le energie e ripartire più forti, più presenti a noi stessi e a ciò che proviamo.
Inizia a far sera, rientro nella macchina. L’altra vita mi aspetta.
Vedo nelle case incominciare ad accendere le luci… Chi ci sarà dentro?
Una donna che prepara la cena, un bambino che guarda i cartoni, una nonna che sferruzza un maglione…
Due bambine ritornano a casa. Rivedo la mia mamma vicino a me bambina che mi dice “guarda Laura. C’è la prima stella”.
Siamo tutti qui, i vivi e i morti, noi grandi e noi bambini, in uno spazio che non sarà mai soltanto fisico, ma sempre anche emotivo.
“Quand’ecco mi accorsi che erano le medesime stelle della mia fanciullezza, lo stesso mitico fiammeggiare; avevano poi scintillato tutte le notti successive al di sopra di me e
adesso le medesime risplendevano sul mare lontano che mi aspettava.
Ed ancora le avrei viste, immutabili, all’arrivo sopra il mio capo, appena venuta la sera.
E poi ancora la sera dopo e la notte seguente, e avanti avanti, eternamente, fino a che avrò lume degli occhi per vedere; ancora più in là, infine, quando la storia sarà terminata, sul marmo della mia tomba.
Le instancabili, le fedeli sorelle!”
Dino Buzzati – Di Notte in Notte
di Laura Salvi