Donne nella Storia: Martha Gellhorn
Martha Gellhorn scelse con fermezza e determinazione di perseguire i suoi sogni e le sue ambizioni, voleva scrivere ed essere presente là dove la Storia stava accadendo.
Ho conosciuto Martha Gellhorn non molto tempo fa. Avevo letto la biografia romanzata di Paula McLain, “Amore e Rovina“. Il romanzo copre una manciata di anni della vita di Gellhorn, quelli della sua relazione e del successivo matrimonio con Ernest Hemingway. Anche se ridotti nel numero, saranno anni molto intensi non solo e non tanto dal punto di vista sentimentale ma perché coincidono con rilevanti eventi storici del secolo scorso in cui Gellhorn si immerse completamente.
Quello che mi colpì in assoluto di quel libro fu proprio lei, Martha Gellhorn. Per me una scoperta. Al di là di quello che ci può essere di più o meno attendibile in una biografia romanzata, rimane la certezza di una donna che tra gli anni 30 e 40 del secolo scorso scelse con fermezza e determinazione di perseguire i suoi sogni e le sue ambizioni, una donna che voleva scrivere ed essere presente là dove la Storia stava accadendo.
Ma andiamo con ordine. E partiamo dal principio.
Martha Gellhorn nasce nel Missouri nel 1908 e dopo il diploma, a nemmeno vent’anni, abbandona gli studi. Vuole scrivere. Trascorre dunque un paio d’anni a Parigi dove lavora presso lo United Press Bureau.
Parigi in quegli anni è una città viva e frizzante, ritrovo di artisti e intellettuali. È la Parigi di Josephine Baker e di Coco Chanel. Qui, tra l’altro, è protagonista di una relazione amorosa bohemien con Bertrand de Jouvenel, personaggio di spicco della società francese dell’epoca che qualche anno prima aveva vissuto una relazione scandalosa con la matrigna Colette, che a lui si ispirerà per il personaggio di Chéri.
L’esperienza di quegli anni confluisce nel suo primo libro, What Mad Pursuit (1934). La critica non accolse positivamente il romanzo (troppo immaturo o troppo audace ed esplicito per una giovane scrittrice in quegli anni?) tanto che Gellhorn decise di cancellarlo dalla sua memoria e anche dalla bibliografia delle sue opere. Non è stato mai più ristampato. Più o meno recentemente la British Library ha acquisito una copia che ormai è più unica che rara.
Al suo ritorno negli Stati Uniti viene reclutata dalla Federal Emergency Relief Administration (FERA). Erano gli anni della Grande Depressione e Harry Hopkins – che, a capo della FERA, voleva e doveva programmare interventi efficaci – decise di non voler limitare il suo giudizio basandosi solo su dati e statistiche. Voleva capire cosa nel concreto stavano vivendo i cittadini più poveri, quali erano i reali e umani effetti.
Gellhorn, la più giovane dei 16 scrittori e giornalisti incaricati, visitò le baraccopoli e la cosiddette Hooverville per comprendere e testimoniare il reale impatto della grande depressione, quel sentimento di paura, quel fallimento della speranza che pervadeva gli uomini e le donne privati del sogno Americano.
Il lavoro di quei giorni, la storia di uomini sviliti nella loro dignità per la mancanza di lavoro, di donne disperate e di bambini malnutriti e malati, confluisce in report confidenziali indirizzati direttamente alla Casa Bianca. È a partire da questa esperienza che si attesta su uno stile giornalistico che poi le apparterrà tutta la vita, uno stile fatto di descrizioni realistiche e dettagliate della vita delle persone raccontata in maniera onesta e rispettosa, senza orpelli e senza sentimentalismi.
Viene licenziata dal suo incarico per la FERA per aver incitato alla protesta i lavoratori dell’Idaho. Viene ospitata alla Casa Bianca, invitata da Eleanor Roosevelt, già amica di famiglia, con cui da quel momento nasce una duratura amicizia.
Nel 1936 pubblica “The Trouble I’ve seen“, una raccolta di 4 racconti. Tecnicamente sono racconti di fiction ma sono fortemente ispirati a ciò che ha visto durante il suo lavoro per la FERA: il lettore sa che, anche se quel personaggio con quel nome non è realmente esistito, quelle vicende sono reali. Si avverte una certa urgenza – che sarà poi quella che contraddistingue il percorso più strettamente giornalistico di Gellhorn – di testimoniare la realtà, a cominciare dalla sofferenza umana, e di raccontare la verità. E questo legame con il giornalismo sembra essere sottolineato anche dalla scelta dell’immagine di copertina del libro, una famosissima foto di Dorothea Lange.
La raccolta, con la prefazione di H.G. Wells, che sarà legato a Gellhorn da un’amicizia trentennale, riceve ottime critiche e apprezzamenti.
Di lì a poco Martha Gellhorn decide di partire per l’Europa e in particolare per la Spagna, dove nel frattempo è scoppiata una guerra fratricida. Con grande lucidità e comprensione di quello che stava succedendo nel vecchio continente, Gellhorn ha da subito ravvisato l’importanza per l’Europa di schierarsi contro il franchismo se non voleva cedere al fascismo dilagante. Negli anni precedenti aveva assistito ai primi sintomi del nazionalsocialismo poi dilagante e ne aveva diffidato sin dalla prima ora. Fu tra le prime a comprendere come gli esiti della guerra civile in Spagna fossero solo una overture di una seconda guerra mondiale a quel punto difficilmente evitabile.
Sono anni che segnano una svolta importantissima per Gellhorn. Inizia in Spagna la sua relazione con Hemingway, che sposa nel 1940 e da cui divorzia nel 1945. Ma soprattutto da quel momento in poi testimonia con il suo lavoro di giornalista decenni di conflitti in tutto il mondo, diventando un punto di riferimento per donne e uomini che lavoreranno negli anni a seguire nello stesso campo.
È stata infatti una delle primissime e pochissime donne in prima linea giornalisticamente parlando. Dopo la Spagna durante la guerra civile, si trova in Finlandia durante la guerra russo-finlandese, in Cina durante le forti pressioni di un Giappone già aggressivo ancor prima dell’attacco a Pearl Harbour, e poi a Londra e a Parigi nel pieno della seconda guerra mondiale. È l’unica donna presente durante lo sbarco in Normandia (si imbarca clandestinamente sulla nave della croce rossa) e una dei primi giornalisti a entrare nel campo di concentramento di Dachau, appena dopo la liberazione: quell’orrore segna un prima e dopo, non avrà mai più fiducia nel genere umano che si è rivelato capace di tali atrocità e che per dodici anni ha consentito che quelle atrocità avessero luogo senza fare nulla. Assiste anche alle prime giornate del processo di Norimberga.
Dopo la guerra per molti anni non torna sul campo dedicandosi con assiduità alla scrittura, soprattutto di racconti e romanzi con esiti non sempre soddisfacenti. Torna sul campo come giornalista di guerra in Vietnam: diversamente dagli altri giornalisti presenti nel paese, non si accontenta dei briefing ufficiali ma si reca in mezzo alle persone e nei campi profughi. I suoi articoli non rispecchiano la linea governativa, è molto critica sull’intervento americano. Dirà di sentirsi come durante la guerra in Spagna solo che stavolta, come americana, dalla parte sbagliata. Gli Stati Uniti sembrano rifiutarsi ciecamente di imparare dalla storia, sono governati da stupidità e da immoralità, le loro azioni impattano fortemente e crudelmente sui civili e su tanti, tantissimi bambini: i suoi articoli contribuiscono a erodere una narrazione dominante della guerra e ad alimentare il dibattito.
Scriverà degli scioperi dei minatori in UK durante l’era Thatcher, della politica di Reagan sul Nicaragua, delle truppe americane a Panama, delle torture degli attivisti per i diritti umani in El Salvador. Ha finito per convincersi che il genere umano è incapace di imparare dai propri errori e condannato a ripeterli, e ha sempre scritto come giornalista perché sentiva che era suo dovere farlo, che doveva mettere nero su bianco gli eventi affinché i bugiardi si trattenessero dal dire menzogne.
Martha Gellhorn è stata e sarà ancora lungamente un punto di riferimento per molti giornalisti che, sulle sue orme, hanno svolto il difficile lavoro del corrispondente di guerra. Negli anni Settanta la sua casa di Londra è stata un luogo di ritrovo e confronto per giornalisti, scrittori e quanti, come lei per anni, viaggiavano, vedevano, scrivevano e poi tornavano e condividevano.
Lo racconta Caroline Moorehead nella sua ricca e interessante biografia su Gellhorn: ricostruisce la vita di Gellhorn e al contempo, inevitabilmente, apre a spaccati sugli eventi e sul contesto storico, approfondisce la Storia da lei testimoniata attraverso i suoi articoli consegnando così, oltre alla biografia di una donna straordinaria, anche una fotografia del secolo scorso.
Lo racconta anche Lilli Gruber nel libro di recente pubblicazione La guerra dentro (Rizzoli, 2021): promosso come un libro su Gellhorn, in realtà è un libro sul giornalismo di guerra che, sebbene al 50% parli di Gellhorn, per il resto raccoglie le testimonianze di altri giornalisti di guerra come la stessa Gruber, Jacques Charmelot, Ángela Rodicio e altri. Spiace perché libri su Gellhorn in italiano sembrano non esserci. E dei libri di Gellhorn – tra articoli, racconti e romanzi la sua è una bibliografia abbastanza ampia – sono stati pubblicati in Italia solo “In viaggio da sola e con qualcuno” (Fbe, 2006 e poi Solferino, 2021) e “I volti della guerra” (Il Saggiatore, 2009 e prima con il titolo al singolare per Sierra e Riva ed nel 1991).
Martha Gellhorn è un personaggio modernissimo per la sua indipendenza, per la sua irrequietezza, per la decisione con cui persegue i suoi obiettivi nonostante le difficoltà di essere donna in quegli anni e soprattutto di esserlo in un contesto, quello del giornalismo di guerra, ancora più difficile.
Una vita così piena e avventurosa che sembrerebbe il frutto di una sceneggiatura (e in effetti è del 2012 un film con Nicole Kidman nelle vesti della giornalista). A fare della vita di Gellhorn una vita da film non c’è solo l’epica delle sue gesta giornalistiche ma anche alcuni aspetti della sua vita privata.
Gellhorn viene descritta bella come un’attrice, e il suo aspetto e le sue frequentazioni la trasformano anche in una delle prime fashion influencer: succede, infatti, che gli effetti della Grande Depressione cominciano a farsi sentire anche in Europa. Oltre a conseguenze ben più gravi e all’inasprirsi delle tensione sociali, in Francia le grandi case di moda non possono più permettersi di pagare modelle professioniste e allora cominciano a prestare i loro abiti di alta moda a chi, come Gellhorn appunto, può farne sfoggio negli ambienti giusti. Oltre a Chanel, Gellhorn indossa Schiapparelli e porta, in occasione di una cena ai piani alti, uno dei primi modelli con la schiena scoperta (quasi quindici anni più tardi indosserà quello stesso abito per un evento di gala in cui chiacchiererà amabilmente con Mr Churchill).
Molto amica di Robert Capa, anche le sue relazioni amorose non sono di certo relazioni banali. Non solo quelle già citate con Bertrand de Jouvenel e Ernest Hemingway, ma anche con il fascinoso James Gavin. Sembrerebbe che i due si siano conosciuti quando Gellhorn venne condotta nella tenda di campo di Gavin, che a 36 anni aveva già meritato il grado di generale, dopo essere stata intercettata su sentieri di montagna da soldati americani. Tra i principali fautori delle forze aviotrasportate americane, a capo della 82ª aerobrigata ha combattuto in Sicilia, Normandia e nelle Ardenne. Anche lui bello come un attore, la loro relazione finisce quando Martha Gellhorn apprende che il precedente flirt (con una certa Marlene Dietrich) non si è concluso (e comunque non avrebbe sopportato la vita da moglie di un militare). A fine anni cinquanta Gavin lascia le forze armate e all’inizio degli anni sessanta è ambasciatore degli Stati Uniti in Francia per volere di Kennedy. Ma questa è un’altra storia.
Una pioniera, dunque, e una donna sicuramente straordinaria sebbene con i suoi difetti, come tutti del resto. Era irrequieta, capricciosa, impaziente, con una certa propensione ad annoiarsi presto di situazioni e persone, un carattere sicuramente non facile che è peggiorato con gli anni. Ha avuto molte relazioni, incluso un secondo matrimonio, e nessuna particolarmente duratura. La relazione affettiva che è durata di più, inevitabilmente, è stata quella con il figlio che ha adottato (in Italia, dove era rimasta colpita dalla situazione dei bambini nel dopoguerra e degli orfani di guerra in particolare) senza essere ben cosciente dell’impegno che un figlio comporta e scoprendosi col tempo non troppo disponibile a dedicargli tempo ed energie.
All’età di 89 anni, malata e quasi completamente cieca, ha messo fine alla sua vita ingerendo del veleno in pillole. Ancora una volta ha deciso di viverla a modo suo.
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