Rohingya, gli Stati Uniti confermano: Myanmar colpevole di genocidio

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Le dichiarazioni di Blinken non comporteranno ulteriori sanzioni, ma si attende una decisione da parte della Corte dell’Aia contro esercito e governo birmani.

La popolazione Rohingya è stata vittima di genocidio. La repressione dei militari birmani sulla minoranza etnica Rohingya iniziata nel 2016 è stata “sistematica ed estesa”, quindi programmatica e assimilabile a crimini contro l’umanità. É la conclusione presentata dal Segretario di Stato degli Stati Uniti, Anthony Blinken, dopo due precedenti indagini che non avevano portato a consapevolezze concrete.

Il riconoscimento arriva a seguito di una lunga investigazione che ha coinvolto oltre 1.000 testimonianze di rifugiati, ora in Bangladesh, ascoltati dal dipartimento di Stato USA. L’indagine ha incluso documenti raccolti da Amnesty International e Human Rights Watch, oltre a ricerche indipendenti da parte di organizzazioni umanitarie degli stessi Stati Uniti. Blinken ha parlato dell’indagine spiegando che “Le prove indicano un chiaro intento dietro queste atrocità di massa: quello di distruggere l’intera o parte della popolazione Rohingya“.

La conclusione da parte statunitense, comunque, non comporta effetti immediati verso il Myanmar – già soggetto a sanzioni statunitensi da quando l’esercito ha estromesso il governo eletto democraticamente con un colpo di stato militare nel febbraio 2021. In occasione della stessa uscita a Washington, Blinken ha garantito inoltre che gli Stati Uniti contribuiranno con quasi 1 milione di dollari in finanziamenti aggiuntivi alla Convenzione sul Genocidio per il Myanmar, istituita dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite nel 2018.

Anche altri Paesi, tra cui Canada, Francia e Turchia, erano arrivati alle medesima conclusioni presentate in questi giorni da Blinken e adesso, con quest’ulteriore riconoscimento, la speranza è che anche altre nazioni aumentino la pressione sul governo militare. Governo che, tra l’altro, sta già affrontando accuse di genocidio mosse dal Gambia presso la Corte Penale Internazionale di Giustizia dell’Aia. E Blinken ha assicurato che condividerà quanto riscontrato con L’Aia per sostenere il procedimento.

Quanto sarà decisivo questo passo avanti per il riconoscimento dell’identità Roginhya? Quanto sarà ancora necessario per punire i responsabili di questo crimine? Kyaw Win, direttore esecutivo della Burma Human Rights Network, a riguardo, è stato chiaro: “Questa dichiarazione deve essere seguita da ulteriori azioni. Un esercito che commette un genocidio e lancia un colpo di stato per rovesciare un governo democraticamente eletto non ha posto nel mondo civilizzato“.

Sulla stessa lunghezza d’onda è Imtiaz Ahmed, Direttore del Centro Studi per il Genocidio di Dacca, che ha accolto con favore le parole di Blinken e la posizione statunitense – come, del resto, hanno fatto i profughi in Bangladesh. Ahmed ha tenuto anche a rimarcare che “Adesso sarà importante capire quali azioni e conseguenze ne seguiranno. Certamente” – ha sostenuto – “Il semplice riconoscimento del genocidio non è abbastanza”.

Ricordiamo che i Rohingya sono una delle minoranze etniche del Myanmar e fino al 2017 erano circa un milione, costituendo la più alta percentuale di musulmani nel Paese. Qui, erano stanziati principalmente nello stato di Rakhine, al nord. Di discendenza araba, hanno propria lingua e cultura: ma il Myanmar è a maggioranza buddista e il governo non li riconosce come popolo negando loro identità e cittadinanza. Nel 2014, addirittura, furono esclusi dal censimento ritrovandosi, così, clandestini.

La situazione è diventata critica nel 2017: il gruppo insorto del Arakan Rohingya Salvation Army (ARSA), per la Birmania gruppo terrorista, attaccò una trentina di posti di polizia con risultati fatali. Ne seguì una repressione dove l’esercito colpì non solo i civili ma anche i loro villaggi, incendiandoli: così iniziò l’esodo, centinaia di migliaia, verso il Bangladesh.

Secondo Human Rights Watch, con dati satellitari alla mano, almeno 288 furono i villaggi rasi al suolo nell’estate 2017. E oltre 6.000 le persone morte negli assalti, migliaia gli imprigionamenti e sistematici gli stupri. Le tensioni si protrassero e nel gennaio 2020 la corte suprema delle Nazioni Unite ordinò al Myanmar di adottare misure per proteggere i membri della sua comunità Rohingya dal genocidio: l’esercito rispose di combattere i militanti ARSA, negando ogni coinvolgimento di civili. Persino la leader del paese Aung San Suu Kyi, un tempo icona dei diritti umani, ha ripetutamente negato le accuse di genocidio.

In Bangladesh, i Rohingya sono tollerati: il primo ministro Sheikh Hasina, per quanto ritenga che il rimpatrio ed il ricongiungimento significherebbero la soluzione della crisi, non attuerà restringimenti o respingimenti. Almeno. E per il momento.

Sara Gullace

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