“La vita in alto”: alla scoperta dell’Himalaya con Erika Fatland
L’antropologa e scrittrice norvegese Erika Fatland è tornata in libreria con “La vita in alto. Una stagione sull’Himalaya”, suggestivo e imponente reportage sulla catena montuosa più alta del mondo.
La brillante e coraggiosa Erika Fatland, nel solco dei grandi scrittori-viaggiatori, con l’ultimo lavoro “La vita in alto. Una stagione sull’Himalaya” (edito da Marsilio, traduzione di Sara Culeddu e Alessandra Scali) ci regala un viaggio emozionante.
La scrittrice e antropologa norvegese ci conduce in una parte di mondo avvolta da un’aura leggendaria, ma afflitta da tensioni geopolitiche costanti, l’Himalaya.
La catena montuosa dell’Himalaya, che in sanscrito significa “dimora delle nevi”, ha dei confini non ben definiti e si estende su cinque paesi. Come un patchwork di massicci rocciosi, ghiacciai e vallate profonde su un territorio che “si stende tra il continente euroasiatico a nord, dove le distese pianeggianti della taiga siberiana lasciano il posto ai deserti e alle steppe del Kazakistan, della Mongolia e della Cina, e il subcontinente indiano a sud che si estende tra il Pakistan a ovest e il Myanmar a est.”
A nord dell’Himalaya c’è l’altopiano del Tibet, “il tetto del mondo”, a sud il regno del Buthan, l’unico a non essere stato inglobato da stati più potenti.
Un’area dai confini turbolenti ridisegnati col sangue delle battaglie nel corso dei secoli, fino ai giorni nostri. Una terra misteriosa, ricca di spiritualità e conflitti mai sopiti. Culture millenarie si confrontano con le sfide della globalizzazione e del turismo. C’è una forte tensione tra crescita economica e conservazione dell’identità culturale.
Appassionata di viaggi lunghi e complessi, Erika Fatland con La vita in alto ci conduce in Cina nelle provincie dello Xinjiang e Yunnan, in Tibet, Pakistan, India, Nepal e Buthan alla scoperta di territori dove svettano le cime più alte della terra e dove l’eco della storia risale ad Alessandro Magno.
Erika Fatland racconta quello che vede e sente dalle persone che incontra, e le avventure che vive in prima persona. Lo fa con l’abilità alla quale ci ha abituati, unendo il rigore storico al gusto per le storie. Un’opera di non fiction che appassiona come un romanzo, rigorosa come un saggio.
Con i due precedenti lavori l’autrice ci ha rivelato la passione per spedizioni coraggiose in paesi lontani dai nomi esotici e dall’immaginario leggendario.
Il primo libro edito in Italia (sempre da Marsilio), da noi recensito, è stato l’apprezzato e molto letto “Sovietistan. Un viaggio in Asia centrale“, tradotto in 24 paesi . Diario di viaggio attraverso le cinque repubbliche dell’Asia centrale: gli -stan Turkmenistan, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan nate dall’implosione dell’Unione Sovietica.
A seguire abbiamo letto anche “La frontiera, viaggio intorno alla Russia”, sempre edito da Marsilio, dove Fatland percorre il confine più lungo della terra, toccando tutti gli stati che confinano con l’immenso territorio russo.
La vita in alto. Una stagione sull’Himalaya nasce da un viaggio lungo otto mesi: da luglio a settembre 2018 e da aprile a luglio 2019. Il racconto di Erika Fatland inizia con la domanda fatidica “Dove iniziano e dove finiscono una montagna, una catena montuosa, un viaggio?”
In attesa a Kashgar
Il viaggio di Erika Fatland comincia lungo la via della Seta, nella provincia cinese dello Xinjiang, nella città di Kashgar. Nel punto più occidentale della Cina, l’autrice aspetta a lungo che l’ambasciata pakistana di Oslo le mandi il visto per oltrepassare il valico con il Pakistan.
Kashgar è tutta un vivace mercato. Dappertutto ci sono bancarelle che offrono cibo e celebre è il mercato degli animali. Marco Polo la definì “la città più grande e magnifica della regione”. Una città che ha una storia lunga, segnata da molteplici dominazioni, quella cinese inizia soltanto nel 1757.
Nel dedalo di viuzze della città vecchia, “considerato il centro storico islamico più grande e meglio conservato di tutta l’Asia centrale”, risuonano le risate dei bambini e splendono i sorrisi delle vecchiette.
La città fu il set del film Il cacciatore di aquiloni e a ben guardare Kashgar è stata ricostruita come una scenografia, suggestiva ma troppo perfetta e poco autentica. Nel 2009 infatti le autorità cinesi ne hanno disposto la demolizione e la ricostruzione, con la scusa dell’inadeguatezza antisismica del centro storico.
Il monumento più importante è la moschea giallo-oro di Id Kah, la più grande di tutta la Cina.
Nella piazza del centro una gigantesca statua di Mao alta 24 metri è a memoria della Rivoluzione Culturale.
A pochi chilometri dal centro c’è il Mausoleo di Afaq Khoja, meta di pellegrinaggio più sacro di tutto lo Xinjiang. Le forme e i colori ricordano “gli edifici di altre città della via della Seta come Samarcanda e Bukhara”.
Chi vive in questa città da Mille e una notte? L’etnia Han è la più diffusa in Cina, tranne che nella provincia dello Xinjiang e in Tibet dove prevalgono gli uiguri, una popolazione turcofona originaria della Mongolia e della regione a sud del lago Bajkal in Russia. Dopo essere stati cacciati dalla Mongolia, gli uiguri si stabilirono nello Xinjiang fondando il regno Uiguristan, che venne poi sottomesso da Gengis Khan.
Vicende storiche complesse mostrano un territorio conteso, teatro di scontri e rappresaglie e anche di attentati da parte di terroristi uiguri che sostengono i movimenti separatisti. Per frenare queste spinte indipendentiste, la Cina dal 2017 ha internato gli uiguri nei campi di lavoro statali e ha costretto i loro famigliari ad ospitare nelle loro case dei cinesi Han per tenerli d’occhio. Non ci sono cifre ufficiali, ma si stima che un milione di Uiguri è rinchiuso nei campi di lavoro.
L’attesa del visto da Oslo è snervante, ma Erika Fatland ne approfitta per andare alla ricerca dello Shipton’s Arch, l’arco naturale più grande del mondo, meraviglia da Guinness dei primati, scoperto nel 1947 dall’esploratore inglese Eric Shipton. Una meta difficile da raggiungere, tant’è che il National Geographic nel 2000 mandò una squadra di esploratori per individuarlo.
Si parte
Finalmente il visto arriva e inizia l’agognata partenza verso sud alla volta del Pakistan e dell’Himalaya. La meta è la fortezza di pietra di Tashkurgan lungo la strada del Karakorum.
A 3.000 metri si erge questa costruzione vecchia di 2200 anni, circondata da montagne alte il doppio.
Altri chilometri da macinare per arrivare al varco col Pakistan, il varco Khunjerab: con i suoi 4.700 metri è il più alto del mondo.
Villaggi e città immense. Strade nuovissime e angusti e pericolosi sentieri a strapiombo su precipizi. Laghi, fiumi, ghiacciai. Steppe desertiche e vegetazione rigogliosa. Tutto e il contrario di tutto in questa parte di mondo.
La vita in alto di Erika Fatland è un viaggio che merita di essere gustato passo dopo passo. È un diorama che mostra le stratificazioni di culture, lingue e credenze che caratterizzano questi luoghi. Un sincretismo frutto di conflitti sanguinari, a volte di matrice religiosa, altri per sete espansionistica. Territori in costante fibrillazione, che registrano la scomparsa di alcune etnie locali e esodi di massa forzati.
Esemplare è il rituale militare, la cerimonia di Wagah-Attari, che quotidianamente si ripete al confine tra India e Pakistan, lungo il valico di frontiera di Lahore. Una battaglia cerimoniale tra i due Paesi nucleari in perenne conflitto, sebbene un tempo fossero un unico paese.
La ricchezza dell’esplorazione di Erika Fatland tra territori così diversi, dal passato denso di avvenimenti, riti e leggende, ci rimanda un insieme di nomi evocativi e sogni ad occhi aperti. Pescando dal mucchio di cartoline, alcune delle tappe di un viaggio eccezionale.
Frammenti di viaggio
Vette di settemila metri occhieggiano i viaggiatori dal massiccio del Karakorum, che si estende per 500 km dalla zona di confine tra India, Pakistan e Cina fino all’Afghanistan e al Tagikistan. Le sue montagne sono impraticabili.
Protetto da quelle vette inospitali c’è il leggendario regno di Hunza “incastonato tra il Tibet a nord, il Kashmir a est e l’Afghanistan a ovest.” I pochissimi esploratori che riuscirono a visitarlo prima che venisse costruita una strada asfaltata negli anni Settanta, lo hanno definito come un paradiso terrestre, dove l’armonia, la democrazia e la salute permettono ai suoi abitanti di vivere un secolo e mezzo. La guida di Erika le parla di un uomo arrivato a 112 anni e lui stesso ha una nonna di 100 anni ancora in ottima forma. Molti abitanti hanno la pelle chiara e alcuni persino gli occhi chiari. Quasi tutti con i capelli biondo scuro. La leggenda vuole che qui abitino i discendenti di Alessandro Magno e dei suoi soldati. La regione dello Hunza è liberale, viene data molta importanza all’istruzione, anche femminile.
La regione montuosa del Karakorum ha più di 53mila ghiacciai, è seconda solo ai Poli, ma il cambiamento climatico ne produce lo scioglimento. Un grave danno per l’ecosistema, perché i maggiori fiumi dell’Asia – Indo, Gange e Mekong – sono alimentati da questi ghiacciai.
Il rischio idrogeologico è stata la causa di una grande frana annunciata che ha travolto e sommerso il paese di Attabad in Pakistan il 4 gennaio 2010, rendendolo un lago spettacolare.
Come si fa a restare indifferenti a un luogo chiamato Prati delle fate? I pendii ricoperti di verde di questa incredibile montagna vennero così ribattezzati da un gruppo di alpinisti tedeschi negli anni ’50. Una scheggia ferma nel tempo dove si osserva il più stretto conservatorismo.
Per raggiungere i Prati delle fate la strada è ripida, stretta e a strapiombo sul vuoto. In lontananza svettano le cime del Nanga Parbat, “il massiccio più occidentale dell’Himalaya”. Con i suoi ottomila metri è la nona cima più alta del mondo e una delle più pericolose, detta “killer mountain”: “per ogni tre scalatori che raggiungono la cima, uno muore.”
Purtroppo ci sono state delle vittime del Nanga Parbat anche per mano di terroristi di Al Qaeda. Il 22 giugno 2013 un commando raggiunse il campo base e dieci alpinisti furono giustiziati. Per questo oggi gli stranieri per salire in cima sono obbligati ad avere una scorta, gratuita.
In Pakistan c’è un territorio isolato e inaccessibile, il Kafiristan, “la terra degli infedeli”. Qui vivevano i Kalash, dagli occhi azzurri e la carnagione chiara, ritenuti i discendenti di Alessandro Magno, che col suo esercito nel 326 a.C. sconfisse Poro il sovrano del Punjab. Oggi sono appena quattromila gli unici superstiti del Kafiristan.
Grazie ad Alessandro Magno a Peshawar, una delle città più antiche dell’Asia meridionale, strategicamente vicino al passo Khyber che permette l’attraversamento della catena dell’Hindu Kush, la lingua della pubblica amministrazione è stata il greco e molte delle statue buddiste del periodo hanno delle similitudini con le sculture degli dei dell’Acropoli.
Nel tormentato Kashmir, Erika Fatland fa tappa a Srinagar, la città delle famose case galleggianti. Un’astuzia edilizia ideata dagli inglesi per ovviare al divieto del maharaja di far comprare case e terre agli stranieri. Esistono ancora oggi i giardini galleggianti, fatti da erbacce e radici intrecciate a formare un tappeto spesso circa un metro sul quale si coltiva di tutto.
Secondo una leggenda Gesù, sopravvissuto alla crocifissione, fuggì in Kashmir, dove visse fino a 120 anni per essere poi seppellito nel centro di Srinagar dove appunto c’è la sua tomba.
Erika Fatland ne La vita in alto visita mete che un tempo erano raggiungibili soltanto da esploratori coraggiosi, come la città di Leh. La capitale del Ladakh, regione detta “piccolo Tibet”, a 3.500 metri di altitudine, è un trionfo di negozi di souvenir e di agenzie di viaggio che vendono il mito himalayano.
A qualche decina di chilometri da Leh c’è il monastero di Hemis. Qui secondo l’avventuriero russo Nikolaj Notovic, autore a fine ottocento del libro “La vita sconosciuta di Gesù Cristo in India e in Tibet“, è custodito un libro che racconta il girovagare di Gesù adolescente per l’india. Studiando buddismo e induismo e provando a convertire le popolazioni locali, prima di tornare in Palestina e compiere il suo destino.
Un monaco rassicura Erika Fatland della veridicità di questa storia e dell’esistenza del libro, che è stato letto dall’abate del monastero, l’unico che può toccarlo.
“L’Himalaya è una fucina di leggende di questo tipo, non solo sul salvatore cristiano, ma su lama che sanno levitare, abominevoli uomini delle nevi e recondite valli paradisiache i cui abitanti vivono nell’armonia, liberi da piaghe secolari come la vecchiaia o le malattie”.
Norbu, da 25 anni è un “amchi” cioè un praticante di medicina tibetana tradizionale. La medicina tibetana è intrecciata col buddismo e utilizza dei mantra curativi da recitare in particolari situazioni. Cos’è il buddismo? Il lama Tsewang del monastero nella valle degli Spiti lo definisce così: “Il buddismo non è una religione, bensì una scienza che tratta della vita di ognuno di noi e della verità sulle nostre vite, della natura profonda dell’esistenza e del mondo. Dobbiamo sapere come funziona il mondo per poter vivere. L’insegnamento di Buddha fa parte della liberazione”.
Il monastero di Dhankar da ottocento anni osserva il mondo da una rupe. In una sala sono conservate le maschere di legno usate durante le danze tantriche rituali: demoni con zanne sporgenti, cervi ghignanti.
Nel piccolissimo villaggio di Tabo i templi vecchi di mille anni custodiscono affreschi colorati.
Il villaggio di Gue ha legato la sua fama al monaco Tenzin, che si è automummificato per salvare il villaggio da un’invasione di scorpioni velenosi. I suoi resti sono conservati in una teca nel villaggio. La pratica dell’automummificazione ha testimonianze anche in Giappone, dove sono custoditi i resti di sedici monaci. Funzionava così. Dopo un digiuno di mille giorni per eliminare il grasso corporeo, l’ingestione di un veleno a lento rilascio. In attesa della fine, i monaci recitavano mantra muovendo una campanella. Il silenzio ne avrebbe testimoniato la morte.
A casa del Dalai Lama
Una fila lunghissima davanti a un botteghino è il colpo d’occhio su McLeod Ganj dove si trova la residenza del Dalai Lama e la sede del Governo tibetano in esilio. Una sorta di sobborgo di Dharamsala. La fila è per procurarsi i biglietti per assistere agli insegnamenti pubblici di Sua Santità.
Il mattino dell’evento una folla di turisti da tutto il mondo, monaci, esuli tibetani, pellegrini riempiva tutto lo spazio intorno al tempio in attesa del Dalai Lama. All’arrivo di Sua Santità un fremito attraversò la piazza dove erano stati allestiti dei maxi schermi. “Il Dalai Lama sembrava come sempre di ottimo umore, la sua presenza emanava calma e dolcezza. Sorrise e chiacchierò con molti pellegrini, senza far caso alla discreta impazienza dei suoi accompagnatori”.
La traduzione simultanea in varie lingue, fruibile via radio, aveva problemi di sintonizzazione e così è un mistero per Erika Fatland il motivo che faceva ridere Sua Santità insieme agli esuli tibetani.
L’India dei Beatles
Dharamsala è la capitale del buddismo tibetano. Rishikesh, sulle rive del Gange, è quella dello yoga. Probabilmente, anche se non praticate nessuna delle innumerevoli correnti dello yoga – Vipassana, Iyengar, Jivamukti, Bikram, Power yoga, Yin yoga, avrete sentito parlare di Rishikesh perché nel 1968 i Beatles accettarono l’invito del guru indiano Maharishi Mahesh Yogi di trascorrere tre mesi nel suo ashram, a Rishikesh appunto.
Il guru ideò la Meditazione Trascendentale, una forma di meditazione per accedere “all’intelligenza creativa dell’universo” e per sperimentare “la pace assoluta”.
Insetti e cibi speziati fecero fuggire Ringo Starr e la moglie dopo dieci giorni. Paul McCartney se ne andò dopo un mese e mezzo. George Harrison, appassionato da tempo di cultura indiana, si dedicò completamente alla meditazione, come l’entusiasta John Lennon. Dopo due mesi nell’ashram, anche Lennon e Harrison lasciarono l’india in compagnia di un sedicente guru, Magic Alex, al secolo un ingegnere elettronico greco, che mise in giro calunnie contro Maharishi. I due Beatles incanalarono tutta la delusione provata nella canzone Sexy Sadie.
Di città sacra in città sacra Erika Fatland ne La vita in alto arriva ad Haridwar. Secondo l’induismo è il luogo dove la dea Ganga “scese sulla terra dopo che Shiva ebbe liberato l’immenso fiume dai suoi capelli” dando origine al fiume Gange.
Secondo l’induismo un bagno nelle acque del Gange purifica da tutti i peccati e aiuta a raggiungere più velocemente la liberazione dal ciclo di morte e rinascita, in sanscrito moksa.
Un amore da favola
C’era una volta il regno del Sikkim. Nella regione del Darjeeling dove si beve il tè più pregiato e buono del mondo, in uno storico hotel, il Windamere, l’ultimo re del Sikkim vide la studentessa americana Hope Cooke. La diciannovenne Hope, sebbene lui fosse vedovo e con tre figli e avesse il doppio dei suoi anni, se ne innamorò e divenne regina del Sikkim. Erika Fatland, ospite al Windamere, decide di rintracciare l’ultima figlia della coppia reale, Hope Leezum, da tutti conosciuta come Semla. La donna non ha più titoli reali da quando il regno è stato annesso all’India.
Tutto il viaggio di Erika Fatland ne La vita in alto è costellato da confini da attraversare, come quello tra India e Bhutan.
Per i suoi abitanti Buthan significa “terra del drago di tuono”, simbolo nazionale che campeggia sulla bandiera. Questo piccolo regno è all’avanguardia nelle politiche “green” e infatti assorbe più anidride carbonica di quanta ne produca. Una legge impone che almeno il sessanta percento del territorio sia ricoperto da foreste.
Il Bhutan promuove la felicità al punto da averla inserita nella costituzione, che è stata adottata per la prima volta nel 2008: “lo stato deve creare le condizioni in grado di portare al raggiungimento di una felicità interna lorda”, ma il concetto di felicità in Bhutan è diverso dall’idea occidentale.
Peculiarità sparse: in Buthan non si festeggia il compleanno e non si gioca d’azzardo e il peperoncino è una vera mania, i locali lo aggiungono ad ogni piatto e viene venduto ovunque. Anche se la vetta himalayana più alta del Bhutan raggiunge i 7570, il governo ha vietato le scalate sopra i 6000 metri per non disturbare gli spiriti e gli dei che vivono a quelle altitudini.
In Buthan, come in Tibet, l’astrologia è una forma di medicina esoterica. Si crede che gli spiriti maligni provochino le malattie. Il cane è considerato l’ultimo stadio della reincarnazione prima di poter rinascere come esseri umani e con i suoi latrati tiene lontani gli spiriti.
Sull’impatto della modernità nelle società antiche e chiuse, vale la riflessione del sindaco di Merak “nessuna cultura è un museo etnografico… se una cultura non è un museo, non è nemmeno un fiore delicato che appassisce e muore solo perché deve condividere l’ossigeno con i gas di scarico e la luce elettrica”.
Yeti e altri animali… fantastici
Il sindaco porta avanti da alcuni anni una ricerca sugli yeti. Ritiene che ce ne siano parecchi nei dintorni e lui stesso ne ha visto le orme gigantesche. Breve identikit dell’abominevole. Sono vegetariani ma ogni tanto diventano carnivori. Se si incontra un esemplare con i capelli lunghi è un maschio, quindi inciampa se si sale. Se ha le mammelle lunghe è una femmina e inciampa in discesa. Anche il console inglese Erich Shimpton trovò un’orma ritenuta di uno yeti durante una delle spedizioni sull’Everest
L’esistenza dello yeti lascia perplessi, eppure, come ricorda lo scrittore Tshering Tashi, “il takin, il nostro animale nazionale, è stato a lungo considerato una creatura mitologica, finché non venne dimostrata la sua esistenza. Idem per il papavero blu dell’Himalaya.”
Il sito dell’ente del turismo del Bhutan rivendica orgoglioso la presenza sul territorio del “leopardo delle nevi, panda rosso, orso bruno dell’Himalaya, muntiaco, la volpe del Bengala, lo scoiattolo himalayano dal ventre arancio e il misteriosissimo yeti”
A conclusione del giro in Bhutan, Erika Fatland visita la “Tana della Tigre”, il monastero incastonato in cima al ripido fianco di una montagna (quello sulla copertina del libro) e considerato il luogo di pellegrinaggio più sacro di tutto l’Himalaya.
Secondo la leggenda il monastero è stato portato sin lassù dalle Dakini, divinità femminili che lo hanno fissato alle rocce con i loro capelli. Il monastero è dedicato al padre spirituale del Bhutan, venerato in tutto il Tibet, il maestro tantrico Padmasambhava. Conosciuto anche come Guru Rinpoche.
Fondatore della scuola Nyingma, la più antica delle quattro scuole del buddismo tibetano. È considerato la reincarnazione del Buddha, per questo è noto come il Secondo Buddha.
All’ingresso del monastero c’è una grossa pietra con un punto nero. Solo chi ha un karma positivo riesce a centrare ad occhi chiusi il punto con un dito. Una volta dentro, vicino all’altare ci sono tre dadi. Si possono fare tre lanci per conoscere il proprio karma. Un’usanza clemente permette che venga considerato sempre e solo il risultato più positivo.
In Nepal, in un piccolo villaggio vicino ad Anini, Siepa Melo è lo sciamano più potente. Da sedici anni un antropologo tedesco lo va a trovare per documentare riti e canti tradizionali, affinché non vadano persi. Il sapere da preservare sembra infinito.
Lo sciamano è un intermediario tra l’uomo e lo spirito. Gli spiriti sono suscettibili di fronte alla mancanza di rispetto dell’uomo nei confronti della natura.
La tappa in Nepal è l’occasione per Erika Fatland di rivederne dopo 16 anni la capitale, Kathmandu, che le appare più caotica, sporca e squallida di un tempo. Insieme all’interprete raggiunge il più antico tempio induista della città, Pashupatinath, uno dei più sacri di tutta l’Asia. Solo gli indù possono accedere al luogo più sacro. Poco distante, vicino a uno sporco fiumiciattolo, dei sacerdoti preparano delle pire funebri.
L’incontro con uno yogi, un asceta, è l’occasione per scoprire qualche informazione in più sull’induismo. Ci sono trentatré milioni di divinità, che sono espressione di un unico Dio. Ogni mese il giorno della luna piena è celebrato con la ricorrenza di Purmina ed è speciale per gli induisti.
Kathamndu ha divinità ancestrali, ma anche una divinità in carne ed ossa, la cosiddetta “dea vivente”, la kumari devi, la dea bambina, che esce di casa solo 13 volte l’anno, portata in processione, senza mai toccare il terreno.
Solo gli indù possono farle visita. “La tradizione della dea bambina è una pratica secolare del popolo dei newa, l’etnia indigena originaria della valle di Kathmandu”.
La dea bambina, la kumari, ha più significati: per gli induisti è la reincarnazione della dea Taleju, per i newa è la reincarnazione di Bajra Devi, una dea tantrica buddista.
Verso l’Everest
Finalmente è giunto il momento della spedizione sull’Everest. Con la pista di atterraggio di Kathmandu chiusa, le spedizioni del versante nepalese partono da Lukla. Bisogna far parte di una spedizione per ottenere il permesso di pernottare all’Everest Base Camp.
“Muoversi ad alta quota è un esercizio di lentezza” perché bisogna fare tappe brevi per permettere al corpo di abituarsi. E questa abilità varia da persona a persona. C’è chi soffre del mal di montagna già a 2000 metri.
Gli scienziati hanno scoperto che per gli sherpa, che vivono sulle montagne dal Cinquecento, le cellule del corpo consumano meno ossigeno. Vivere a 8.000 metri è impossibile per qualunque essere umano.
Erika Fatland ci spiega come “George Everest, l’inglese incaricato di mappare e misurare l’India tra il 1830 e il 1843 non si è mai neanche avvicinato alla montagna che porta il suo nome“.
Sull’Himalaya c’è anche la base scientifica più alta al mondo ed è italiana. Fondata nel 1990, ha la forma di una piramide in vetro come quella del Louvre, sotto la quale c’è un rifugio. L’attività prevede il monitoraggio dell’inquinamento dell’aria, dello scioglimento dei ghiacciai e dell’attività sismica. Purtroppo gli inarrestabili cambiamenti climatici avranno conseguenze sempre più devastanti per tutto l’ecosistema.
Affascinante seguire Erika Fatland attraverso la grandiosità dell’impresa di scalare l’Everest. Si sale a tappe: 6.119 metri di altitudine, poi .6492 m infine 7.470 m. Ci vogliono circa due mesi per fare questi giri di acclimatamento e vivere in tenda in attesa di poter partire è dura.
A impresa compiuta ogni scalatore deve riportare via otto chili di spazzatura quando ridiscende la montagna, altrimenti perde il deposito di quattromila dollari. L’inviolabile Everest è invaso dai rifiuti di plastica e anche da quelli umani.
L’anelito verso l’alto si tinge di nero con il fenomeno delle vedove degli sherpa. Sono gli sherpa che aprono la strada portando corde e scale che poi saranno utilizzate dagli scalatori e molti muoiono durante questa pericolosa fase preliminare.
Altra pagina dolorosa deI Nepal è la tratta di esseri umani. Si stima che ogni giorno 30 ragazze vengano vendute e portate in India a lavorare nei bordelli o come domestiche presso famiglie facoltose che le trattano come schiave.
Anche per le persone LGBT la vita non è facile. C’è tanto oscurantismo e violenza. Per le persone trans è più sicuro andare in Tailandia per ricevere aiuto e cure adeguate, eppure paradossalmente in Nepal esiste un concorso di bellezza “Miss Pink” dedicato alle persone trans.
Il girovagare di Erika Fatland prevede una tappa nel luogo di nascita di Siddharta Gautama, il Buddha, l’Illuminato, nell’area di Lumbini. Dal 1997 è Patrimonio dell’umanità UNESCO. Un territorio arido punteggiato da rovine antiche.
Sempre al confine tra Tibet e Nepal c’è il piccolo regno buddista del Mustang, indipendente fino al Settecento quando fu annesso al Nepal. Il regno però è sempre stato più legato al Tibet che al Nepal, come testimoniano gli abitanti locali che parlano il dialetto tibetano, si vestono alla tibetana e praticano il buddismo tibetano.
Fino al 1992 la regione era inaccessibile agli stranieri e ancora oggi si scoraggia il turismo con delle tasse molto alte all’ingresso.
A Jomsom, dove c’è la pista di atterraggio, a sei ore di macchina dalla capitale Lo Manthang, c’è il tempio sacro a Visnu “Muktinath”: è ritenuto un luogo talmente sacro che chiunque lo visiti dopo la morte va direttamente in paradiso.
Lo Manthang è circondata da mura rosse che racchiudono 177 edifici che risalgono alla fondazione del regno. I tre templi custodiscono tutti degli affreschi antichi di settecento anni, dettagliati e minuziosi, e la statua del Buddha.
Lasciata la capitale del Mustang in sella a dei cavalli per andare a visitare un posto lì vicino, la spedizione incrocia il raro leopardo delle nevi. La comitiva arriva a un villaggio dove in un museo sono custoditi resti umani e pitture murali buddiste. Nel Mustang sono state individuate circa diecimila grotte scavate dall’uomo, alcune risalgono a tremila anni fa. Prima usate come luoghi di sepoltura, poi come abitazioni, magazzini, luoghi di meditazione.
In tutta questa eternità, la guida di Erika Fatland, Savitri, chatta su Tinder con un italiano che lavora e vive nella giungla del Nepal meridionale, mentre aspettano di bere qualcosa nella sala da pranzo della loro pensione a Lo Manthang.
Nel Nepal nord occidentale esiste la poliandria, cioè la donna può avere più mariti. In genere sposa due fratelli per permettere ai maschi di non dividere le terre e l’eredità paterna.
In questo angolo di Nepal c’è il letto sassoso del fiume Kali Gandaki. “Kali è una delle divinità più potenti e temute del pantheon induista: è la Madre dell’Universo, la distruttrice delle forze del male, la dea della potenza e del tempo” per questo è raffigurata con una collana di teschi al collo e una spada insanguinata in una delle quattro mani.
Il fiume Kali Gandaki serpeggia nel Mustang e oltre, verso sud, fino a unirsi al Gange nel Golfo del Bengala. La sua origine si perde nella notte dei tempi. Il fiume scorreva ben prima che la placca indiana si scontrasse con quella euroasiatica, quando c’era un oceano a coprire l’Eurasia. Circa duecento milioni di anni fa c’era l’oceano Tetide, ora scomparso. Per questo le rocce “sono costellate di fossili marini, di ammoniti, estinti sessantacinque milioni di anni fa insieme ai dinosauri”
“Per il viaggiatore attraversare un confine è un rito di passaggio: si lascia una realtà con la quale si è appena iniziato a prendere dimestichezza per ritrovarsi catapultati in un’altra, completamente sconosciuta”.
In Tibet
La spedizione di Erika Fatland in Tibet non sarebbe stata possibile fino a qualche anno fa. Nel 2010 il Tibet ha vietato l’ingresso ai viaggiatori provenienti dalla Norvegia dopo che il dissidente Liu Xiaobo aveva ricevuto il Premio Nobel per la Pace. La sua colpa l’essere stato uno degli autori di Charta 08, un manifesto politico che chiedeva riforme democratiche basilari nella Repubblica Popolare Cinese. Il gelo tra i due paesi si è sciolto nel 2016 con la firma di un accordo e il Tibet ha riaperto le sue frontiere ai cittadini norvegesi.
Ancora oggi in Tibet è vietato l’ingresso a giornalisti stranieri. Tutti i turisti che visitano il Tibet devono essere scortati da una guida approvata dal governo.
La repressione cinese è forte. In passato i nomadi erano un terzo della popolazione del Tibet, ma ora sono stati costretti a diventare stanziali. Scacciati dai loro pascoli e insediati in villaggi prefabbricati, per ridistribuire le loro terre a favore dell’industria mineraria.
“I tibetani fanno risalire le origini del loro regno al 127 a.C. anno in cui il loro primo sovrano celeste, Nyatri Tsenpo, discese sulla terra calandosi dal cielo con una corda. Alla sua morte risalì in cielo con la stessa corda”.
I primi monasteri buddisti risalgono all’VIII secolo, quando il buddismo diventa religione di stato, richiamando maestri da tutta l’India. Tra questi c’era anche Padmasambhava, il maestro tantrico di cui si ritrovano tracce per tutta l’Himalaya.
In Tibet a 4590 metri di altitudine c’è il lago sacro agli indù Manasarovar, le cui acque lavano i peccati di questa e cento vite precedenti. Il lago ha avuto origine dalla mente di Brahma, il Creatore. Nelle sue acque è stato concepito Siddartha e per questo il lago è sacro anche ai buddisti.
A 5210 metri di altitudine c’è il monastero più alto del mondo, Drirapuk. Purtroppo è una copia. L’originale fu distrutto nel 1976 dalle Guardie Rosse: di tutti i seimila templi e monasteri del Tibet, furono risparmiati solo 13.
La leggendaria capitale del Tibet è Lhasa, che però assomiglia a una metropoli cinese in piccolo. Tra grattacieli, gru e cantieri l’omologazione è pervasiva e devastante, come già visto nella regione dello Xinjiang.
Per fortuna non tutta l’antica Lhasa è scomparsa, come il palazzo del Potala dove ha vissuto il Dalai Lama fino al 1959, anno della sua fuga. Il palazzo è una fortezza di tredici piani e un migliaio di stanze in un’atmosfera fiabesca.
La travagliata storia del Tibet scorre sulle pagine e Erika Fatland riesce a incontrare alcuni oppositori del regime girando liberamente per le strade di Lhasa. “Il Tibet è una prigione a cielo aperto” sussurra una donna; “non possiamo parlare liberamente nemmeno con i nostri amici” dice a bassa voce un altro oppositore.
I controlli di Pechino sono serrati, capillari e minuziosi, al punto che non si può tenere la foto del Dalai Lama sul cellulare. Tutto è controllato e sorvegliato.
I riti antichi coesistono con la modernità portata dai cinesi. Alla periferia di Lhasa si officia una sepoltura celeste: il cadavere viene fatto a pezzi e gli uccelli se ne cibano; le ossa sono polverizzate e unite alla farina perché gli animali le mangino. È un rito crudele che restituisce tutto alla natura. Solo i bambini piccoli e i lama altolocati vengono seppelliti.
Shangri-la
C’è una tappa più evocativa e ben augurante di Shangri-la? Un monastero dotato di tutti i comfort nascosto tra i monti, in una valle rigogliosa. Fondato all’inizio del Settecento da un monaco cattolico del Lussemburgo, Padre Perrault, che mangiando bacche leggermente stupefacenti, meditando, facendo yoga tutti i giorni e abbracciando uno stile di vita moderato aveva scoperto l’elisir dell’eterna giovinezza. Riuscendo a raggiungere i 250 anni d’età. Questo eden viene scoperto nel 1931 quando ottanta occidentali furono evacuati dall’Afghanistan in rivolta e portati verso l’India Britannica. L’aereo, seguendo una rotta sbagliata, verso il Karakorum, fa un atterraggio di fortuna sull’altopiano tibetano e il pilota prima di morire sprona i passeggeri a cercare aiuto al monastero lì vicino chiamato Shangri-la. Quando il console britannico Conway riesce a farsi ricevere dal lama del monastero, scopre la storia di padre Perrault, che si rivelerà essere lo stesso lama.
Questa è la leggenda messa in giro da James Hilton nel libro del 1933 Orizzonte Perduto. Frank Capra ne fece un film e vinse l’Oscar. Diventò Shangri-la mania. Persino il presidente statunitense Roosevelt ribattezzò la sua residenza ufficiale in Maryland “Shangri-la”, oggi Camp David.
L’utopia pacifista di un monastero sperduto tra le montagne dell’Asia è un’idea che affascina ancora oggi. Il luogo è nato dalla fantasia dello scrittore, forse ispirato dal Samabhala, il leggendario e segreto regno buddista di cui si parla in molti testi tibetani, della cui natura non si sa, se luogo terreno o spirituale.
Nel 2001 il governo cinese ha ribattezzato Shangri-la la città di Zhongdian nella provincia dello Yunnan. Mossa di marketing vincente che da allora fa accorrere milioni di turisti.
Quando nel 2014 un incendio distrusse buona parte della città, venne ricostruita purtroppo in un baleno.
“Esperienze teoricamente uniche, antiche storie e tradizioni intrecciate tra loro nei modi più complessi si riducono a un banale prodotto consumato rapidamente e altrettanto rapidamente digerito”.
L’impermanenza o tutto finisce
“Ma perché viaggiamo? Perché viaggio? All’improvviso mi sentii scendere addosso una grande stanchezza” scrive Erika Fatland a ridosso della conclusione del suo viaggio eccezionale.
Tutt’altra atmosfera, ben più autentica, si respira nella città vecchia di Lijiang, dove il centro storico si salvò dal terremoto del 1996 e oggi sembra una foto del tempo che fu, con le Montagne Nevose Del Drago di Giada a fare da sfondo.
Oggi la città è una meta visitata da quarantacinque milioni di turisti, per la maggior parte cinesi. In passato l’economia si basava sul commercio perché la Lijiang era uno snodo importante lungo l’antica via carovaniera del tè e dei cavalli.
In città Erika Fatland incontra il famoso direttore d’orchestra Xuan Ke, dell’antica etnia Naxi. Una leggenda vivente. Incarcerato per 21 anni dai comunisti, si è salvato dipingendo poster di propaganda.
Xuan Ke è stato il maestro della moglie di Xi Jinping. Lei è cristiana e si è recata in visita dal suo vecchio maestro con un seguito di ventimila persone. La speranza è che i valori cristiani influenzino il marito non credente.
“Come finisce un viaggio?” Si chiede Erika Fatland nell’ultimo capitolo del meraviglioso “Una vita in alto”.
Termina “sulle sponde del lago Lugu, tra il popolo dei mosuo, la più grande società matrilineare al mondo”
Erika Fatland con La vita in alto ci consegna una testimonianza preziosa fatta di avventura, storie, digressioni ben documentate di geografia, politica, storia, geologia, spiritualità.
Come ci ricorda “Ci sono così tanti modi di stare al mondo! Da lassù era impossibile accorgersene, ma io lo sapevo, perché l’avevo visto”.
Giusy Andreano
La vita in alto. Una stagione sull’Himalaya
di Erika Fatland
Marsilio, 2021
Traduzione di Alessandra Scali, Sara Culeddu
pp. 688, 1ª ed.