“Komorebi”: Giorgia Mazzucato torna in scena, senza filtri
Al Teatro “Falcone Borsellino” di Limena (PD) stasera prima nazionale del nuovo spettacolo dell’attrice e autrice allieva tra gli altri di Dario Fo, Franca Rame, Marco Baliani e Andrea Pennacchi.
Il tuo nuovo spettacolo, “Komorebi”, al quale hai lavorato per più di due anni, è un’importante raccolta di testimonianze, dati e racconti. Com’è nato?
Ho cominciato a scrivere questo spettacolo appena hanno chiuso tutto per la pandemia da Covid-19, quindi a marzo 2020. Era un progetto che avevo già in mente da prima, ma non avevo mai avuto il coraggio di provare a svilupparlo. Quindi, sapendo che sarei stata dentro casa per mesi, mi sono detta che era il momento di guardare in faccia questo argomento, che comunque mi spaventa. Quando ho davvero cominciato a cercare testimonianze, a leggere dati, bibliografie, mi si era spalancata una “tenebra”, perché più leggi e più la consapevolezza fa male. Quando non sei consapevole le cose sembrano migliori. Più cominci a essere consapevole, più diventa doloroso interfacciarsi con una realtà che finge che certe cose non esistano.
Qual è stato il percorso che ti ha portato alla stesura definitiva di “Komorebi”?
Inizialmente, sono partita dal mio stile classico, con un personaggio fittizio che parla dell’argomento tramite storie vere: si trattava della storia di una speaker radiofonica vittima di outing, che poi prende coraggio per fare coming out pubblicamente. Volevo provare a debuttare a settembre 2020, per questo avevo scritto abbastanza velocemente. Poi a settembre e nell’autunno di quell’anno era ancora tutto chiuso, o comunque i teatri erano accessibili con capienza al 50%, per me era una roba improponibile. Non volevo bruciare questo progetto e ho preferito aspettare. Così il progetto si è proprio messo in standby, nel frattempo ho scritto un altro spettacolo, “Arriva la papessa”, che ha debuttato qualche mese fa e, passati un po’ di mesi – quindi si parla di circa un annetto fa scarso, forse meno, otto mesi – ho voluto riprendere in mano questo spettacolo. Da lì ha però completamente cambiato forma: in questi anni di scrittura il tema dell’omobitransfobia è stato anche un tema molto caldo, forse per la prima volta è diventato un tema pubblico, anche con il ddl Zan. Era la prima volta, almeno per me, che sentivo parlarne pubblicamente ai tg, ai talk show. Ma se ne parlava in maniera aberrante. E quindi mi sono detta che era il momento giusto per riprendere in mano il testo, perché provavo sempre più dolore nel sentire notizie e cose che riguardavano me, che parlavano di me, ma in maniera inumana. Ho deciso allora di cambiare forma, perché su questo argomento non volevo creare un personaggio che non esistesse. Non volevo filtri. Non volevo uno spettacolo che facesse ridere o commuovere il pubblico, che è più o meno il mio stile. Non volevo dare nessun tipo di alibi per il pubblico di non capire quello che sto provando a dire.
Quindi ho tolto tutti i personaggi, e lo spettacolo si è trasformata in uno stand-up ibrido, che è una tipologia che si presta a quello che volevo comunicare: ci sono solo io sul palco, con un microfono. Ho cercato di togliere tutto ciò che era accessorio per essere il più chiara possibile, perché questa cosa la voglio dire in faccia. Il pubblico deve sentirsi preso in causa, perché lo sto prendendo in causa. Dello spettacolo è cambiata la forma, ma non i contenuti: si parla prevalentemente della situazione italiana ma non solo. È cambiata solo la forma di condivisione e di relazione con il pubblico. Ovviamente non è una forma aggressiva, ma è raccontare una storia che non è la mia, o quantomeno non è solo la mia, ma riguarda tutti, compresi gli eterosessuali presenti in platea. Il concetto è che questa storia ti riguarda, perché è la tua società a discriminare le persone. Non è solo la società di chi viene discriminato. Non so se in futuro riprenderà questa forma di spettacolo che, per semplificare, ho definito stand-up. Non credo sia esattamente il mio genere e il mio stile, ma credo che per questo tipo di spettacolo sia la scelta più efficace, quella che io sentivo più necessaria. Generalmente scrivo i miei spettacoli perché ho l’urgenza di raccontare qualcosa. A seconda di questa urgenza cerco poi di capire quale sia la forma più potente, dal mio punto di vista, per raccontare la storia. In questo caso non volevo indorare la pillola, e non volevo nemmeno che il pubblico riconoscesse la drammaticità della storia e la riconducesse però a un caso specifico, dicendo “Poverina, è sfortunata, ma la vita non è così”.
Hai detto che per la prima volta il tema dell’omobitransfobia è diventato di dominio pubblico. Il tuo diventa così un teatro di utilità sociale, per la comunità.
In questo momento sto cercando di usare la mia voce per portare quanto più possibile in superficie un argomento che è, in modo devastante, pericoloso, per come viene trattato e anche per come non viene trattato, quindi come se non fosse un problema. Ma voglio chiarire anche che credo veramente e fortemente che le cose stiano cambiando in questi anni: con dolore, con ingiustizia, sottostando anche a sentire una serie di dichiarazioni deliranti, ma sta cambiando qualcosa. Credo che le nuove generazioni stiano facendo decisamente il loro; quelle più vecchie stanno cercando di contribuire, cercando di onorare la memoria delle generazioni che hanno cominciato queste battaglie. Ma si vede la luce.
Il problema è che tutto quello che bisogna sopportare e affrontare per stare alla luce è primitivo, cioè si parla di situazioni, dichiarazioni e violenze che sembrano veramente preistoriche. Basta fare il paragone con gli Stati che abbiamo intorno. L’Italia è l’unico paese dell’Europa occidentale dove non è previsto il matrimonio egualitario. Il ddl Zan, che è stato affossato, in Norvegia esiste da 40 anni, e fa impressione dirlo. Invece noi l’anno scorso eravamo alle prese con gente che diceva che se si fosse approvata una legge contro l’omofobia – e sappiamo ovviamente che non è solo contro l’omofobia – allora bisognava farne una anche contro l’eterofobia. È una dichiarazione di una follia esagerata, anche perché il testo è potenzialmente contro qualsiasi discriminazione basata sull’orientamento sessuale e quindi pure, se esistesse, contro l’eterofobia.
Il titolo dell’opera è proprio un omaggio alla luce che si vede grazie alle battaglie. “Komorebi” è una parola giapponese di cui io mi sono innamorata. È intraducibile, non ha un corrispettivo in nessuna lingua del mondo. Significa “la luce del sole che filtra tra le foglie degli alberi”, che secondo me è un’immagine stupenda, così come è stupendo pensare che una civiltà abbia sentito l’urgenza di coniare questa parola. Komorebi è l’immagine che io associo a quello che sta succedendo, in questo ambito, negli ultimi anni: questa luce di dignità, rivoluzione in senso lato e potente che comunque filtra, nonostante ci siano questi blocchi, questa oscurità, queste foglie che cercano in tutti i modi di bloccare quello che è semplicemente un riconoscimento dei diritti. Perché non si tratta nemmeno di conquista di diritti: i diritti non vanno conquistati, io devo averli perché nasco. È per questo che vanno riconosciuti.
Intervista a cura di Graziano Rossi con la collaborazione di Chiara Romano
Komorebi
di e con Giorgia Mazzucato
Testi e regia: G. Mazzucato
Musiche originali: G. Mazzucato
Luci: Andrea Vannini
Una produzione SB Teatro
Venerdì 13 maggio ore 21, teatro Falcone Borsellino, Limena (PD)
Biglietti:
15€ intero
10€ ridotto under 21
Informazioni -> biglietti@sb-teatro.it
Prevendita ->
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