Perché siamo così lenti nell’agire per salvaguardare l’ambiente?
“Amnesia ambientale”: la nostra capacità di essere, oramai, abituati allo stato di degrado in cui versa la natura potrebbe aiutare a spiegare la crisi ecologica.
È uno dei misteri dell’era contemporanea. Finora non abbiamo mai avuto, così sembra, un accesso così facilitato alle informazioni, scrive Manon Meyer-Hilfiger sull’edizione francese di National Geographic, eppure la nostra conoscenza degli spazi naturali sta diminuendo. Come conseguenza, si è riscontrata una certa passività di fronte alla portata del disastro. Per spiegare questa capacità umana di abituarsi a un ambiente degradato, lo psicologo americano Peter Kahn ha sviluppato il concetto di “amnesia ambientale generazionale“.
Poiché gli esseri umani hanno sempre meno contatto con la natura – nel 2050 due persone su tre vivranno in città, secondo le stime dell’ONU – è sempre più facile dimenticare quanto quest’ultima sia in pessime condizioni. L’ecologo americano Robert Pyle parla dunque della “estinzione dell’esperienza della natura“, una vera e propria sfida per le generazioni future. “Quando un bambino cresce lontano dalla natura, sarà meno propenso a proteggerla in futuro perché non fa parte del suo quadro di riferimento, non è presente nella sua memoria“, spiega Anne-Caroline Prévot, biologa della conservazione al CNRS/Museo nazionale di storia naturale e autrice del libro La nature à l’oeil nu (traduzione letterale: “La natura a occhio nudo”, NdT).
E anche se si conosce un ambiente naturale come le proprie tasche, ciò non impedisce di sottovalutare il suo stato di degrado. Già nel 1995 il biologo marino Daniel Pauly ha dimostrato che i ricercatori specializzati nella pesca prendevano come riferimento scientifico il numero di pesci dall’inizio della loro carriera, senza confrontare questi dati con le generazioni precedenti. Quello che consideravano uno stato “normale” era in realtà già degradato. Proprio per questo è difficile quantificare l’entità della crisi ecologica e rispondervi adeguatamente.
“La nostra società si sta suicidando a livello mnemonico”
Le conseguenze dell’amnesia ambientale vanno ben oltre. Senza la trasmissione della conoscenza, anche il ricordo dei disastri naturali – e i modi migliori per adattarsi ad essi – viene a mancare. A causa del cambiamento climatico, episodi una volta isolati si moltiplicano ora sempre di più. Inondazioni e tempeste, che hanno sempre minacciato le zone costiere, stanno diventando molto comuni. Gli abitanti di queste regioni hanno saputo per secoli come proteggersi da questi fenomeni.
“Ma questa conoscenza è andata perduta durante lo sviluppo delle località balneari, alla fine del XIX secolo, e notevolmente dopo la Seconda guerra mondiale. Si urbanizzava a tutti i costi e le aziende si insediavano quindi in aree a rischio“, spiega Emmanuel Garnier, climatologo ed esperto di rischi ambientali presso il laboratorio Chrono-Environment dell’Università di Franche-Comté.
Eppure, “perfino la toponomastica forniva degli indizi. Nel nord della Francia i termini Noues, Voivre o Vaivre designano zone umide o aree paludose; dove gli anziani facevano attenzione a non costruirvi nulla. Invece nel sud della Francia le “Zones d’Aménagement Concerté” [traduzione letterale: zone concordate per lo sviluppo urbano. Si tratta di spazi urbani delimitati che vengono utilizzati da enti pubblici per la realizzazione di progetti per lo sviluppo dell’assetto urbanistico, NdT] sono oramai installate su dei devèzes. In occitano questa parola significa “luogo per pascolare” o “terra riservata”, perché si tratta di aree esposte a inondazioni improvvise“. A quel tempo gli urbanisti, a volte ignorando consapevolmente il sapere degli avi, vedevano soprattutto la necessità di sistemare gli abitanti il più vicino possibile ai porti per soddisfare le pressanti esigenze dell’economia globalizzata. Ancora oggi, in una società super-smart, nulla facilita la trasmissione della conoscenza ambientale.
“In qualità di storico posso dire questo: la società odierna si sta suicidando a livello mnemonico“, afferma Emmanuel Garnier. I supporti tecnologici, in particolare, sono problematici. “I computer si rinnovano in media ogni cinque anni, spesso rendendo illeggibili i backup precedenti – mentre io sono riuscito a consultare una pergamena risalente al 1234 che riguardava un’alluvione.”
Ma se possedere delle informazioni è una cosa, consultarle o memorizzarle sono compiti ancora più difficili. Per questo la narrazione degli eventi diventa indispensabile. Alcune culture sono ancora in grado di tramandare una storia di generazione in generazione. “Grazie alla loro mitologia, gli aborigeni dell’Australia sono riusciti a tramandare il ricordo di uno tsunami che risale a prima della nostra era. Il tutto accompagnato da consigli sul modo migliore per reagire nel caso in cui questo sconvolgimento si ripresentasse di nuovo“, spiega il direttore della ricerca del CNRS.
“Una forma di negazione di fronte alla violenza del cambiamento climatico”
Come possiamo allora recuperare questa memoria, imparare a conoscere la natura, prendere coscienza dei suoi ritmi e dei suoi rischi? Prima di tutto si tratta di riconnettersi con la natura passandoci del tempo, secondo la ricercatrice Anne-Caroline Prévot. Ma una corsetta in mezzo a una foresta non trasformerà necessariamente il primo arrivato in un naturalista accanito.
“Deve scaturire un’emozione, che questa visita provochi degli effetti sull’individuo. Si tratta quindi di prestare realmente attenzione a ciò che ci circonda, non semplicemente crescere, evolversi in un ambiente“, sottolinea la ricercatrice, insistendo sulla necessità di rimuovere i freni, fisici e simbolici, di accesso alla natura.
“Negli Stati Uniti, il ricercatore Jason Byrne ha mostrato che le popolazioni di lingua spagnola non andavano nei parchi naturali, per quanto molto vicini a casa. I servizi pubblici ne avevano dedotto che si trattasse di una differenza culturale. Il suo studio ha dimostrato piuttosto che queste popolazioni non si sentivano affatto accolte nei parchi: nessun cartello era in spagnolo, e i visitatori – per lo più bianchi – non assomigliavano a loro“, continua la direttrice della ricerca del CNRS.
Quindi, per trasmettere la conoscenza dell’adattamento ai disastri naturali, Emmanuel Garnier raccomanda di erigere grandi stele nel paesaggio, visibili a tutti, per preservare la memoria di un evento, “come già fanno i tedeschi o i giapponesi“. Anche la scuola ha il suo ruolo da svolgere.
“Dobbiamo concentrarci sui contenuti locali. Parlare dei paesi baschi ai bambini baschi, ad esempio, per non dare l’impressione che i disastri ambientali accadano sempre dagli altri, specialmente nei paesi poveri”, afferma. Un’altra freccia all’arco della scuola: l’organizzazione di gite scolastiche all’aperto, “lasciando giocare i bambini per sviluppare le loro esperienze della natura”, specifica Anne-Caroline Prévot. Tutto ciò permetterebbe di conoscere meglio la natura e le sue evoluzioni e di capire come adattarsi ad essa.
“L’amnesia ambientale è anche una forma di negazione di fronte alla violenza del cambiamento. Un meccanismo normale quando la minaccia sembra più importante delle possibili risposte“, spiega la ricercatrice. Porre rimedio a ciò richiede, dunque, anche la ricerca di soluzioni.
“La biodiversità è uno dei campi che più vi si presta perché le azioni locali hanno una portata reale e le specie possono ritornare rapidamente. Questa sì che è una buona notizia!”
L’ottimismo, altro ingrediente chiave per curare il nostro Alzheimer ambientale.
Traduzione di Daniela D’Andrea via nationalgeographic.fr
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