Per le donne, migrare è una lotta costante
Le politiche contro i rifugiati hanno costi diversi a seconda del genere. Ne parla Heba Gowayed su Al Jazeera.
“Parlerò sul palco, ma non dello stupro”, mi ha detto Joy. Addolorata e sorpresa, le prendo le mani tra le mie. Nel corso delle seguenti due ore, le lacrime le hanno rigato il volto mentre ricordava il viaggio cominciato in una prigione militare del Camerun nel 2018 e continuato fino al rifugio per migranti a Tijuana, dove siamo sedute.
Joy, che è un’amica e ora coordinatrice di quello stesso rifugio, mi ha chiesto di passare dal suo ufficio per aiutarla a preparare la sua dichiarazione per una conferenza stampa. L’incontro si sarebbe tenuto per protestare contro la decisione del 20 maggio di un giudice federale, nominato da Donald Trump, di bloccare il tentativo di Joe Biden di abrogare la Title 42, una norma che si appella alla salute pubblica come motivazione per negare a lei e a migliaia di altre persone il diritto di richiedere asilo.
La ricerca di protezione è un diritto sancito a livello nazionale e internazionale. Ma in un mondo governato da confini disegnati per tenere le persone di colore che hanno bisogno di risorse fuori dai Paesi che le detengono, ciò può essere un’impresa costosa a livello fisico, emotivo e finanziario.
Sono venuta a Tijuana per fare una ricerca per un libro che tratti proprio di quali siano questi costi, che sono addirittura più alti per le donne, che non solo rappresentano la metà degli sfollati a livello mondiale, ma sono anche obiettivo di violenze sessuali e si prendono cura dei 35 milioni di bambini sfollati.
Ed era proprio ai suoi bambini che Joy stava pensando quando, il 21 gennaio 2021, giorno dell’insediamento di Joe Biden, aveva provato con successo ad attraversare il confine con gli Stati Uniti. Era emozionata. Poteva richiedere asilo e riunirsi, finalmente, con la sua famiglia. Di sicuro, aveva pensato, sotto la nuova amministrazione qualcuno avrebbe ascoltato la sua storia e quello che aveva dovuto sopportare.
Tuttavia, nel giro di qualche minuto, la Customs and Border Patrol, una organizzazione con un budget di 17,7 miliardi di dollari, l’aveva caricata di forza su un furgone. Senza farle neanche una domanda, l’avevano riportata al di là del confine.
Era stata espulsa in base alla Title 42.
La storia di Joy comincia due anni e mezzo prima di questo momento, nel Camerun anglofono, dove da tempo i separatisti combattono con lo Stato. Madre single di tre figli e infermiera, Joy gestiva una piccola farmacia. Una sera, alla fine di agosto, un uomo con la gamba dilaniata da una ferita da arma da fuoco entrò nel suo negozio. Un suo amico le tenne una pistola puntata contro la testa, obbligandola a fare una sutura. Ma, sorprendentemente, non furono i peggiori avventori, quella notte. Dopo la loro visita, arrivarono dei militari. “Dove sono i ribelli?” chiesero. Decisero che Joy aveva aiutato ed era complice dei separatisti. Fu portata in una prigione militare. Non avrebbe visto i suoi figli per i successivi tre anni. Non avrebbe mai più visto la sua casa – i militari la bruciarono.
Nelle settimane seguenti, in una prigione che sapeva di sangue e feci, subì stupri di gruppo ogni giorno, mentre i soldati le chiedevano informazioni sui separatisti che lei non aveva. Le violenze non si fermarono fino a quando lei e i suoi compagni di cella furono allineati fuori dalla stanza. Joy fu costretta a guardare mentre le cinque persone prima di lei furono abbattute dalle armi semi-automatiche dei soldati. Lei sarebbe stata la prossima. Ma, mi ha raccontato, Dio aveva altri piani. Proprio allora, i separatisti attaccarono la prigione. Joy fuggì. Si nascose nella giungla. Lì, il capo del suo villaggio le diede 200 dollari e il suo passaporto. Le disse che, per il momento, avrebbe dovuto lasciare i suoi figli lì – doveva prima salvarsi.
Il denaro che le era stato dato era a malapena abbastanza per arrivare in Nigeria e pagare due notti in un albergo. Quando chiese al proprietario se potesse rimanere un po’ più a lungo, facendo le pulizie in cambio, lui accettò. La portò in una stanza nella cantina. Il suo cuore sprofondò quando sentì la serratura chiudersi dietro di lui. Per tutto il mese successivo, venne drogata e costretta ad avere rapporti sessuali con i clienti abituali dell’albergo. Un mese dopo, un suo cliente, compreso che la donna fosse lì contro la sua volontà, la aiutò a scappare. Le comprò un biglietto per l’Ecuador, uno dei pochi Paesi del mondo che accetta camerunensi senza bisogno di visto.
Joy arrivò a Quito senza un soldo. Le fu detto lì, e poi in Messico, che aveva la pelle troppo scura per lavorare in un negozio e anche per lavare i piatti. Una volta, il proprietario di un negozio le negò di lavorare lì, ma le propose di prostituirsi. Lei preferì non avere dove andare. Imparò da una coppia venezuelana come raccogliere le bottiglie di plastica, e un turista la pagò per farle le trecce. Alla fine, un gruppo di rifugiati e migranti africani raccolse del denaro per lei.
Mentre per me un volo da lì a Città del Messico dura solo 4 ore e mezza, il viaggio verso nord sarebbe costato a Joy ben 1.000 dollari e otto mesi della sua vita. Per i rifugiati e i migranti con più risorse, il costo approssimativo è di 4.000 dollari e una settimana di tempo. È così che riuscì a raggiungere Tapachula, una città messicana al confine con il Guatemala, spesso definita una prigione a cielo aperto, dove i rifugiati e i migranti devono essere processati prima di spostarsi verso nord.
Dopo otto difficili mesi, durante i quali aveva dormito in quartieri angusti e aveva subito un’altra aggressione sessuale razzista, si era spostata verso Tijuana. Lì si era scontrata con la politica “Resta in Messico”. Per far sì che la sua richiesta di asilo fosse ascoltata, doveva prendere un numero e aspettare in Messico finché non sarebbe stata chiamata. Ma due mesi dopo essere stata messa in lista, a marzo 2020, il confine fu chiuso. Joy si trovò senza una casa, senza prospettive per un ricorso legale, di fronte a una distesa color ruggine.
La storia di Joy è orrenda, ma non è diversa da altre.
Devo ancora trovare un richiedente asilo che non abbia subito violenza come parte del suo viaggio. Lo stupro è utilizzato a livello globale come brutale arma di guerra. E, una volta dispiegata, le donne sono le uniche vulnerabili alla violenza sessuale.
Ma Joy, come il resto degli sfollati del mondo, è più della sua vulnerabilità. La guardo incantata mentre manda avanti delle riunioni in tre delle lingue che conosce fluentemente. È riuscita a portare i suoi tre bambini in Messico. Ed è una orgogliosa attivista per gli altri immigrati, che riceve con empatia nello stesso rifugio dove viveva lei una volta.
Nel frattempo, continua a lottare affinché venga riconosciuta la richiesta di asilo della sua famiglia. In quanto donna, Joy deve confrontarsi con un sistema volto a negare la sua umanità e il suo potenziale. Il giorno dopo averla incontrata per la prima volta, io e lei abbiamo marciato, l’una accanto all’altra, in una protesta tenutasi per la Giornata Internazionale dei diritti della donna, dove ho imparato la frase “per le donne, la migrazione è una lotta costante”. La lotta per i diritti delle donne non è rappresentata solo dalle proteste nelle capitali delle nostre nazioni, ma nel movimento fisico delle donne, globalmente, verso un futuro migliore.
Traduzione di Chiara Romano via aljazeera.com
Immagine di copertina via thedailystar.net