“Elvis”, il biopic musicale più atteso della stagione e la musica che non c’è

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Siamo stati all’anteprima stampa del nuovo attesissimo biopic su Elvis Presley. Un film con ritmi serrati dove la musica passa in secondo piano per dare risalto al “supereroe” della cultura pop americana. Al dio e ai suoi demoni.

Fotografia impeccabile diretta da Mandy Walker, costumi superbi affidati alla premio Oscar Catherine Martin (“Il Grande Gatsby”, “Moulin Rouge!”) e l’ottima scenografia di Karen Murphy (“A Star Is Born”), ma c’è qualcosa che in questo kolossal dedicato al Re del rock ‘n’ roll manca: la musica.

Prima di arrivare al punto dolente di Elvis facciamo però un passo indietro.

Dopo il successo recente dei film dedicati a star del rock come Elton John (Rocketman, del 2019) ma soprattutto quello su Freddie Mercury e i Queen (Bohemian Rhapsody, del 2018), il regista Baz Luhrmann sapeva di dover creare qualcosa di ancora più stupefacente. In questo caso è anche sceneggiatore insieme a Sam Bromell, Craig Pearce e Jeremy Doner, nonché autore della storia scritta a quattro mani insieme allo stesso Doner.

L’intenzione è stata probabilmente quella di lasciare lo spettatore a bocca aperta per tutta la durata del film, farlo uscire frastornato dai colori e dalla musica e ricreare, per un pubblico che probabilmente non ha mai avuto la possibilità di vedere Elvis dal vivo in carne e ossa, lo stesso effetto di un grande show live.

E per certi versi questo effetto gli è riuscito bene: la pellicola dura ben 2 ore e 40 minuti e ci sono pochissimi momenti in cui ci si annoia. Per rendere questo effetto però diverse cose sono state messe in secondo piano, come la musica, quella composta, suonata e costruita dall’inizio alla fine, che viene un po’ a mancare.

Tutto parte dalla figura dell’impresario imbonitore e manager di Elvis (il protagonista è interpretato dal giovane, e forse poco conosciuto in Europa, Austin Butler), il colonnello Tom Parker. Interpretato da un magnifico Tom Hanks, il colonnello Parker è la voce narrante di una storia fatta essenzialmente di trucchi, giochi di specchi e manipolazioni messe in atto dallo stesso Parker. In questa storia, quindi,  Elvis e la sua famiglia sono vittime e succubi della commedia che, per venti anni, il Colonnello mette in scena per i suoi interessi personali (i soldi per appagare il suo vizio del gioco d’azzardo).

Tutto vero per carità, ma, oltre a peccare di eccessiva semplificazione, viene forzata un po’ la mano e non emerge il vero contributo e l’eredità che Elvis Presley ha lasciato su questa terra.

Ad esempio viene dato poco spazio alla formazione culturale e musicale del giovane Elvis: sebbene vengano messe in evidenza le sue radici musicali (qui un po’ banalizzate) tra blues e country, non viene dato spazio a come da giovane Presley entri in contatto con gli strumenti musicali, con la scrittura e la composizione e più avanti con la recitazione cinematografica. A volte sembra che l’attore Austin Butler non sia nemmeno in grado di fare un accordo di chitarra in prima posizione tanto preso dalle mosse e dagli sketch che hanno reso celebre il Re del Rock.

Alcune parti della storia sembrano quasi caricature e forse un po’ forzate anche il ruolo politico di Elvis in materia di integrazione razziale e lotta alle disuguaglianze negli Stati Uniti. Parliamo degli anni delle battaglie di Martin Luther King, di Malcom X, dei Kennedy, della crisi di Cuba. Delle presidenze controverse di Nixon e Ford e questo scenario storico politico viene solo accennato e per certi versi distorto.

Per di più, per dare spazio al carisma, all’ego e alla presenza scenica di Elvis Presley vengono messe in secondo piano le sue doti di intrattenitore e show man. Elvis, in questo film, viene dipinto principalmente come il playboy che fa eccitare (fino all’orgasmo!) le donne durante i suoi spettacoli.

Vengono a mancare, inoltre, figure fondamentali della musica di quell’epoca: B.B. King, Fats Domino, e soprattutto Sister Rosetta vengono appena accennati (sebbene questi tre trovino spazio in diverse scene), ma ad esempio tutta la rivoluzione musicale della british invasion o, per rimanere negli States, dei Led Zeppelin, di Bob Dylan, Jimi Hendrix, Johnny Cash … È vero: ruoli completamenti diversi sono stati giocati da chi è nato prima del 1940 e chi dopo, ma neanche si possono ignorare o sottovalutare tutte le contaminazioni e le influenze che grandi musicisti hanno avuto l’uno nei confronti dell’altro.

Per concludere: questa di Elvis poteva essere un’ottima occasione per parlare di musica, di rock e dell’apporto alla cultura popolare americana e mondiale e invece è stata un’occasione come un’altra per parlare di intrighi, lussuria, scandali e il ruolo predominante dei soldi e della cultura capitalista americana.

Un ottimo film, sicuramente da vedere (uscirà nelle sale italiane mercoledì 22 giugno). Vi lascerà davvero senza fiato, ma per prendere in prestito il titolo di un romanzo di David Foster Wallace è “Una cosa divertente che non farò mai più” (se non lo avete fatto oltre a vedere Elvis leggetevi questo libro).

Damiano Sabuzi Giuliani

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