“Le affatturate”: l’amore scandagliato dalla penna delle donne
Rina Edizioni ha pubblicato un’antologia di ventidue racconti scritti da autrici a cavallo fra Ottocento e Novecento.
Si può piacevolmente constatare che nel mondo editoriale c’è ultimamente un bel fermento attorno al recupero e alla (ri)edizione delle autrici. Abbiamo parlato, ad esempio, della ripubblicazione dei racconti di Alba de Céspedes e di Grazia Deledda, celebrata e ripubblicata per i 150 anni dalla sua nascita.
A marzo di quest’anno Rina Edizioni ha pubblicato un’antologia di racconti che riunisce in un volume ventidue testi di ventidue autrici a cavallo fra Ottocento e Novecento: Le affatturate. Per un’eloquente coincidenza, la presentazione del volume si apre con due versi di Patrizia Cavalli – morta il 21 giugno scorso a 75 anni -, poeta che tanto mancherà e che tanto vorremmo studiata a scuola: «Ero in pace ed eccomi dannata/al sospetto che forse sono amata».
Valeria Palumbo, nell’introduzione al suo saggio “Non per me sola” parla del «mito dell’amore» come dell’«arma più efficace che la cultura romantico-borghese abbia impiegato a danno delle donne» (p. XI). Un amore costretto a stare entro certe forme e certi limiti per non essere tacciato di devianza, di mostruosità. Un concetto di amore tutt’altro che sereno e spontaneo, piuttosto infarcito di bugie, di rappresentazioni falsate da una una chiara definizione dei ruoli che uomo e donna devono ricoprire in una società androcentrica e patriarcale.
Sebbene queste scrittrici non fossero tutte esplicitamente impegnate per l’emancipazione sociale della donna – anzi, avessero talvolta posizioni conservatrici in merito – nei loro scritti risuonano una sensibilità e una sincerità che difficilmente si possono arginare e convogliare entro margini di sicurezza. Le sfumature – a volte terribili – delle relazioni irrompono con una schiettezza scevra di artifici.
È come se – guardando al titolo della raccolta – si scandagliasse nei suoi reconditi aspetti quella malìa che affattura, rivelando ciò che si nasconde sotto l’etichetta luminosa di amore.
Dentro quella fattura si celano violenza, sopraffazione, dolore, angoscia, ossessione, paura. Ma emergono anche desideri, brama di libertà, padronanza di sé, consapevolezza, ironia.
Pur nella diversità di approcci e di stili, queste novelle parlano la lingua sincera di autrici che riflettono sulla condizione delle donne, dal punto di vista di donne. La carrellata di ventidue racconti ci sorprende come l’ondata di un mare che d’improvviso s’ingrossa riversando sulla spiaggia oggetti fino a quel momento nascosti nelle sue profondità. La sorpresa di tanti nomi – parecchi insieme ai relativi pseudonimi – si arricchisce della sorpresa di narrazioni e punti di vista nuovi. L’arrivo di tutti questi oggetti sulla riva ci costringe a porci delle domande: su ciò che ci è stato raccontato, sui modelli tramandati, su chi li ha plasmati, quei modelli tramandati.
Molti testi mostrano la violenza – sia fisica sia psicologica – del maschio che vuole possedere interamente ed eternamente la donna che ha scelto di avere. Ci sono uomini che aggrediscono, come ne L’avventura di Maria Messina; che soggiogano, come ne L’oscura passione di Carola Prosperi o ne Il giogo di Sfinge (Eugenia Codronchi Argeli); che sparano, come in Libeccio di Grazia Deledda, ne La cicatrice di Ada Negri e ne Il segreto di una notte di Carolina Invernizio. Soprattutto quest’ultimo racconto ci mostra che la violenza dell’uomo sulla donna è esercizio di possesso e che di fronte a donne che sfuggono, che desiderano libertà e altro, rispetto al ruolo contenuto di mogli e madri ubbidienti, scatta la punizione: la morte come ultima affermazione di proprietà.
Nei racconti leggiamo le reazioni talvolta tragiche di corpi che si agitano fra i lacci che li imbrigliano, le norme rigide della rispettabilità. In Stefania Zen, dattilografa, di Teresah (Corinna Teresa Ubertis), c’è ad esempio il trauma causato dall’invisibile dito inquisitore che giudica ogni gesto sconveniente di una donna, portando Stefania al delirio.
Un filo percorre gran parte dei racconti: quello dell’inganno, del maschio che raggira o che tradisce. E le reazioni sono le più disparate. In Miss Hope, di Contessa Lara (Evelina Cattermole), c’è l’ardore autodistruttivo. Ne Il dubbio di Amalia Guglielminetti, c’è l’angoscia quasi stanca di una moglie imbrogliata da marito e amiche. In Paolina, di Neera (Anna Maria Zuccari), l’amore geloso e ossessivo è quello di una figlia nei confronti del padre che si risposa. Nel racconto gotico di Cesarina Lupati (Cesarina Lovati), Avventura notturna, un ammaliante quadro ritrae una donna che per amore e gelosia ha macchiato di sangue le sue mani. Ne La moglie ingenua di Anita De Donato, invece, la protagonista arriva a puntarsi un’arma alla testa a causa di un marito che la trascura: eppure, è proprio in quel momento che acquisisce la consapevolezza della sua condizione e – a differenza di tante eroine dipinte da mano maschile – non preme il grilletto. Non si uccide – non muore.
La disillusione di fronte a un uomo che inganna e tradisce ha per titolo La commedia dell’amore nel racconto di Bruno Sperani/Beatrice Speraz. La metafora teatrale è più che adatta e risuona in altri testi, come in Per ferire di Adelaide Bernardini – racconto costruito proprio come un pezzo teatrale –, come in Cardiopalmo di Annie Vivanti – dove l’uomo mette su una patetica recita per conquistare le donne – oppure Botta e risposta di Regina di Luanto (Anna Guendalina Lipparini), in cui la protagonista, con una cinica risata, smaschera algidamente la farsa e l’ipocrisia del rito del corteggiamento. C’è quindi anche un’importante vena ironica che scorre nella raccolta.
C’è ironia nel racconto di Haydee (Ida Finzi), Uomini, basta!, imperniato su una madre che non vuole uomini per le sue figlie. L’idea che una donna possa (debba) bastare a sé stessa e che, per questo, sia necessaria un’istruzione e un’occupazione, permea varie storie ed è richiamata anche dalla citazione in esergo al volume.
Il tema della donna che può bastarsi da sola va a braccetto con quello della parità di genere. Ne La fine di un amore, di Clelia Pellicano, Giulio è infastidito dall’intelligenza e dal talento della sua compagna. La superiorità del maschio è messa in crisi anche nel racconto di Elda Gianelli, Nella piccola vita.
L’attualità sconcertante degli argomenti abbracciati e l’attenzione ai moti – anche contraddittori – della psiche delle protagoniste donano ai racconti una modernità sorprendente. Ce n’è uno – di terribile attualità – in cui il tema trattato è quello dell’aborto, che si combina col femminicidio: Convegno d’amore, di Flavia Steno. Qui Nerina cede all’assedio dell’insistente Claudio e gli si concede, per poi scoprire la «catastrofe». Accenna allora a Claudio la soluzione indicibile. Disporre del proprio corpo, essere padrona di sé è un peccato mortale che acceca l’uomo, fiero di aver lasciato il suo marchio su quella che vede come una sua proprietà. Claudio allora la ridurrà per sempre al silenzio.
Nerina osa rifiutare «quello che ogni donna sogna», deviando dalla norma prestabilita. E che dire allora delle protagoniste de Il perfetto amore, in cui Mura (Maria Assunta Giulia Volpi Nannipieri) racconta la vertiginosa passione fra due donne – perfetta senza uomini.
E poi, a terminare la raccolta, c’è uno sguardo amaro e dissacrante sulla maternità vissuta come abnegazione: Paola Drigo descrive Il dramma della Signora X, il languore e lo smarrimento di una donna che si vede invecchiare e che vede allontanarsi il figlio, per il quale era stata figura indispensabile.
Di quel «mito» iniziale non restano che brandelli. Le autrici stracciano il vecchio copione facendo sgorgare dalla pagina tutte le storture e le contraddizioni che si nascondono in quel groviglio complesso di sentimenti, relazioni e norme sociali che definiamo «amore». E la loro voce fa sentire un punto di vista diverso, una sensibilità schietta, lei sì disincantata, capace di portare una carica nuova e di perturbare gerarchie e geografie letterarie.
Sara Concato