Alla scoperta dell’amnesia digitale: lo smartphone ci sta rovinando la memoria?
“Non riesco a ricordare nulla” è una lamentela comune in questo periodo. Ma ciò succede perché ci affidiamo così tanto ai nostri cellulari? Gli avvisi infiniti e le distrazioni ci impediscono di creare nuovi ricordi?
La settimana scorsa ho mancato un incontro non virtuale perché non avevo impostato un avviso sul mio cellulare, lasciando una persona che non avevo mai incontrato prima da sola in un bar. Ma lo stesso giorno ho ricordato il nome dell’attrice che faceva la zia di Will Smith nel Principe di Bel-Air nel 1991 (Janet Hubert). La memoria è strana, imprevedibile, scrive Rebecca Seal sul britannico The Guardian, e, a livello neuroscientifico, non ancora compresa del tutto. Quando la memoria fallisce come ha fatto la mia (e succede, tanto), è facile e logico dare la colpa alla tecnologia che abbiamo adottato così recentemente.
Avere più memoria in tasca significa che ne abbiamo meno in testa? Sto perdendo la mia abilità di ricordare le cose – dagli appuntamenti a ciò che stavo per fare dopo – perché mi aspetto che il mio cellulare lo faccia per me? Prima degli smartphone, le nostre teste ritenevano una lista di numeri di telefono e le nostre memorie contenevano una mappa cognitiva, costruita nel tempo, che ci permetteva di navigare – per coloro che usano i cellulari non è più così.
I nostri cervelli e i nostri smartphone formano una rete complessa di interazioni: la “smartphonificazione” della vita va avanti dalla metà degli anni 2000, ma è stata accelerata dalla pandemia, così come l’uso di internet in generale. Periodi di stress prolungati, isolamento e stanchezza – temi comuni da marzo 2020 – sono noti per il loro impatto sulla memoria.
Delle persone esaminate nel 2021 da Catherine Loveday, ricercatrice della memoria, l’80% sentiva che la loro memoria era peggiorata rispetto a prima della pandemia. Siamo – ancora – scossi, non solo dal Covid-19, ma anche dal triste ciclo di notizie globali e nazionali. Molti di noi si auto-tranquillizzano con distrazioni come i social media. Allo stesso tempo, scrollare senza fine può, alle volte, creare a sua volta dello stress, e le notifiche telefoniche e l’auto-interrompersi per controllarle sembrano anche avere effetti su cosa, come e se ricordiamo.
Quindi cosa succede se appaltiamo parte della nostra memoria a uno strumento esterno? Ci permette di spremere sempre più qualcosa fuori dalla nostra vita, perché non siamo abbastanza affidabili coi nostri cervelli fallaci? Ci affidiamo così tanto ai nostri smartphone che fino alla fine cambieranno il modo di lavorare della nostra memoria (spesso chiamato amnesia digitale)? O ci dimentichiamo delle cose solo occasionalmente, quando non ci ricordiamo di impostare un avviso?
I neuroscienziati sono divisi. Chris Bird è un professore di neuroscienze cognitive alla Scuola di Psicologia dell’Università del Sussex che gestisce la ricerca per l’Episodic Memory Group. “Abbiamo sempre scaricato cose su strumenti esterni, per esempio scrivendo appunti, e ciò ci ha permesso di vivere vite più complesse”, ha spiegato. “Non ho problemi nell’usare strumenti esterni per aumentare i nostri processi di pensiero o di memoria. Lo facciamo di più, ma così si libera del tempo per concentrarsi su o ricordare altre cose”.
Bird ritiene che usiamo il telefono per ricordarci quelle cose che, per la maggior parte dei cervelli umani, sono difficili da ricordare. “Faccio una foto del mio biglietto del parcheggio così so quando scade, perché è una cosa arbitraria da ricordare. I nostri cervelli non sono evoluti per ricordare cose altamente specifiche e uniche. Prima dei nostri strumenti, bisognava fare un certo sforzo per ricordare l’ora in cui era necessario ritornare alla macchina”.
Il professor Oliver Hardt, che studia neurobiologia del ricordare e del dimenticare alla McGill University di Montreal, è molto più cauto. “Una volta che si smette di usare la memoria, peggiorerà, e ciò farà usare ancora di più questi dispositivi” ha spiegato. “Li usiamo per tutto. Se visiti un sito per una ricetta, premi un tasto e invia la lista degli ingredienti al tuo telefono. È molto comodo, ma la comodità ha un prezzo. È bene fare certe cose nella propria testa”.
Hardt non è entusiasta della nostra dipendenza dal GPS. “Possiamo prevedere che l’uso prolungato del GPS probabilmente ridurrà la densità della materia grigia nell’ippocampo. Ciò potrebbe portare a diversi sintomi, quali un aumento del rischio di depressione e altre psicopatologie, ma anche alcune forme di demenza. I sistemi di navigazione con GPS non richiedono a chi li usa di formare una mappa geografica complessa. Comunicano solo direzioni, come “Gira a destra al prossimo semaforo”. Si tratta di risposte comportamentali molto semplici (qui: gira a sinistra) a determinati stimoli (qui: semaforo). Questo tipo di comportamenti spaziali non coinvolgono troppo l’ippocampo, a differenza di quelle strategie spaziali che richiedono la conoscenza di una mappa geografica, in cui si può indicare qualsiasi punto, venendo da qualsiasi direzione e che richiede calcoli cognitivi complessi. Quando esploriamo le capacità spaziali delle persone che usano il GPS da molto tempo, troviamo degli handicap nelle abilità della memoria spaziale che richiede l’ippocampo. Leggere una mappa è difficile ed è per questo che ci affidiamo così facilmente a questi strumenti. Ma le cose difficili ci fanno bene, perché coinvolgono i processi cognitivi e le strutture del cervello che hanno altri effetti sulle funzioni cognitive generali”.
Hardt non ha ancora dei dati, ma ritiene che “il costo di tutto ciò potrebbe essere un aumento enorme dei casi di demenza. Meno si usa la mente, meno si usano i sistemi responsabili per cose complesse come la memoria episodica, o la flessibilità cognitiva, ed è più probabile che si sviluppi la demenza. Ci sono studi che dimostrano che, per esempio, è molto difficile sviluppare la demenza se si è un professore universitario, e la regione non è che queste persone sono più intelligenti – è che fino all’anzianità, sono abituati a svolgere compiti che sono mentalmente complessi”. (Altri scienziati non sono d’accordo – Daniel Schacter, psicologo di Harvard che ha scritto “I sette peccati della memoria: come la mente dimentica e ricorda”, ritiene che gli effetti provenienti da cose come l’utilizzo del GPS siano relativi solamente a “compiti specifici”.)
Nonostante gli smartphone possano ovviamente aprire nuovi mondi di conoscenza, possono anche trascinarci via dal presente, come per esempio da una bellissima giornata, non goduta perché si tiene la testa china a mandare messaggi su Whatsapp. Quando non stiamo prendendo parte a una esperienza, è più probabile che non la ricorderemo in modo appropriato, e meno esperienze ricordate potrebbero addirittura limitare la nostra capacità di avere nuove idee e di essere creativi. Come ha spiegato Wendy Suzuki, famosa neuroscienziata e ricercatrice della memoria, nel podcast di neuroscienze Huberman Lab: “Se non riusciamo a ricordare ciò che abbiamo fatto, le informazioni che abbiamo scoperto e gli eventi delle nostre vite, veniamo cambiati. La parte del cervello che ricorda definisce davvero le nostre storie personali. Definisce chi siamo”.
Catherine Price, scrittrice e autrice del libro “How to Break Up With Your Phone” (in italiano “Come rompere col tuo cellulare”), è d’accordo. “Ciò a cui facciamo attenzione in un dato momento aggiunge qualcosa alle nostre vite” racconta. “I nostri cervelli non sono multitasking. Pensiamo di sì. Ma ogni volta in cui il multitasking è andato a finire bene, è perché una di quelle attività non richiedeva troppo a livello cognitivo, per esempio si riesce ad ascoltare la musica mentre si piegano i vestiti. Se fai attenzione al telefono, non stai prestando attenzione a tutto il resto. Può sembrare una cosa detta tanto per dire, ma in realtà è molto profonda. Perché si ricordano solo le cose a cui si fa attenzione. Se non accade, non se ne avrà letteralmente memoria dopo”.
Anche Barbara Sahakian, neuroscienziata di Cambridge, ha le stesse prove: “In un esperimento risalente al 2010, tre gruppi diversi dovevano completare un’attività di lettura” ha spiegato. “Un gruppo aveva ricevuto un messaggio sul cellulare prima di cominciare, un gruppo durante e l’altro non aveva ricevuto nulla. Dopo la lettura, c’era un test di comprensione. Si è scoperto che le persone che avevano ricevuto il messaggio non ricordavano quello che avevano appena letto”.
Price è molto più preoccupata di ciò che l’essere perpetuamente distratti dai nostri telefoni – definito “attenzione parziale continua” dall’esperta Linda Stone – fa alla nostra memoria. “Non mi faccio distrarre dalla mia agenda” ha spiegato. E non crede che gli smartphone ci liberino, permettendoci di fare di più. “Siamo onesti: quanti di noi utilizzano il tempo risparmiato utilizzando le app per scrivere poesie? Ci ritroviamo solamente a guardare robaccia su Instagram”. Price viene da Philadelphia. “Cosa sarebbe successo se Benjamin Franklin avesse avuto Twitter? Sarebbe stato su Twitter tutto il tempo? Avrebbe fatto le sue invenzioni e le sue scoperte?”
“Mi sono interessata molto a capire se le distrazioni costanti causate dai nostri dispositivi potrebbero influenzare la nostra abilità di accumulare ricordi, ma anche di trasferirli in uno spazio a lungo termine in un modo che potrebbe impedire la nostra abilità di elaborare pensieri interessanti e profondi” ha spiegato. “Una delle cose che impedisce l’abilità del nostro cervello di trasferire i nostri ricordi nella memoria a lungo termine è la distrazione. Se vieni distratto” – da una notifica, o dal bisogno schiacciante di prendere il cellulare – “non avverranno quei cambiamenti fisici che sono richiesti per immagazzinare quel ricordo”.
È impossibile saperlo per certo, perché nessuno ha misurato il nostro livello di creatività intellettuale prima degli smartphone, ma Price pensa che l’eccessivo utilizzo di questi dispositivi potrebbe colpire la nostra abilità di essere acuti. “Una intuizione è in grado di connettere due cose separate nella propria mente. Ma per averne una ed essere creativi, bisogna avere molto materiale grezzo nel cervello, proprio come non si può cucinare senza avere gli ingredienti: non si può avere una intuizione senza non sia materiale nel cervello, e intendiamo ricordi a lungo termine”. (La sua teoria era supportata Eric Kandel, neuroscienziato e biochimico 92enne vincitore del Premio Nobel, che ha studiato come le distrazioni influenzino la memoria – Price lo aveva incontrato su un treno e gli aveva parlato della sua idea. “Ho un selfie di me con un sorriso gigante ed Eric che sembra un po’ confuso”). Il professore di psicologia Larry Rosen, coautore (col neuroscienziato Adam Gazzaley) de “La mente distratta: cervelli antichi in un mondo hi-tech”, è d’accordo: “Le distrazioni costanti rendono difficile codificare le informazioni nella memoria”.
Ovviamente, gli smartphone sono fatti per dirottare la nostra attenzione. “Le app che fanno soldi catturando la nostra attenzione sono disegnate per interromperci” dice Price. “Penso alle notifiche come interruzioni, perché è questo che fanno”.
Per Oliver Hardt, i telefoni sfruttano la nostra biologia. “Un umano è un animale molto vulnerabile e l’unica ragione per cui non siamo estinti è che abbiamo un cervello superiore: per evitare di essere prede e trovare cibo, siamo dovuti diventare molto bravi ad essere attenti al nostro ambiente. La nostra attenzione può spostarsi rapidamente intorno e quando lo fa, tutto ciò a cui stavamo facendo attenzione si ferma, ed ecco perché non siamo multitasking. Quando ci concentriamo su qualcosa, è un meccanismo di sopravvivenza: sei nella savana o nella giungla e senti un ramo spezzarsi, allora ti ci concentri totalmente – il che è utile, causa una breve reazione da stress, un piccolo risveglio, e attiva il sistema nervoso simpatico. Ottimizza le tue abilità cognitive e prepara il corpo alla lotta o alla fuga”. Ma adesso è molto meno utile. “Oggi, 30.000 anni dopo, abbiamo lo stesso cervello” e ogni notifica che sentiamo è un rametto che si spezza nella foresta, “simulando cos’era importante per ciò che eravamo: un animaletto spaventato”.
L’utilizzo dello smartphone può addirittura cambiare il cervello, secondo l’attuale studio ABCD, che sta seguendo più di 10.000 bambini americani verso l’età adulta. “Abbiamo cominciato esaminando bambini di 10 anni sia con misure prese a mano che con risonanze magnetiche. Uno dei primi risultati più interessanti è stato che c’era una relazione tra l’utilizzo della tecnologia e l’assottigliamento della corteccia cerebrale” ha spiegato Larry Rosen, che studia i social media, la tecnologia e il cervello. “I bambini che usano di più la tecnologia hanno cortecce più sottili, qualcosa che si suppone avvenga a un’età più avanzata”. L’assottigliamento della corteccia cerebrale è una parte normale della crescita prima e dell’invecchiamento poi, e più avanti nella vita può essere associata a malattie degenerative come il Parkinson o l’Alzheimer, ma anche a emicranie.
Ovviamente, ormai non si può più tornare indietro. Abbiamo bisogno dei nostri smartphone per accedere a uffici, partecipare ad eventi, pagare per i viaggi e avere biglietti, pass e carte di credito, così come ne abbiamo bisogno per email, chiamate e messaggi. È molto difficile non averne uno. Se siamo preoccupati di quello che i telefoni o le app potrebbero fare alle nostre memorie, cosa dovremmo fare?
Nel suo libro, Rosen elenca una serie di tattiche. “Le mie preferite sono le pause tecnologiche”, ha spiegato “dove cominci a fare quello che vuoi sui tuoi dispositivi per un minuto e poi imposti una sveglia per 15 minuti. Silenzi il telefono e lo metti a faccia in giù, ma in vista, come stimolo per dire al cervello che ci sarà un altro minuto di pausa tecnologica dopo 15 minuti. Bisogna continuare fino a quando non ci si abitua ai 15 minuti di concentrazione, e poi si aumenta a 20. Se si riesce ad arrivare a 60 minuti di concentrazione con brevi pause tecnologiche prime e dopo, è un successo”.
“Se pensi che la tua memoria e la tua concentrazione siano peggiorate e stai dando la colpa al tuo lavoro, all’età, o ai tuoi figli, potrebbe effettivamente essere così, ma è anche molto probabile che sia dovuto al modo in cui interagisci coi tuoi dispositivi” spiega Price, che ha fondato la Screen/Life Balance per aiutare le persone a gestire l’uso dei propri telefoni. In quanto scrittrice scientifica, è “molto efferata in processi controllati in modo random, ma coi telefoni si tratta più di una questione qualitativa sull’impatto personale. Ed è davvero facile fare l’esperimento da solo e vedere se c’è differenza. È fantastico avere evidenza scientifica. Ma possiamo anche saperlo in modo intuitivo: se si prova a tenere di più il telefono da parte e si nota una maggiore sensazione di calma e di riuscire a ricordare di più, allora si è già risposto alla domanda”.
Traduzione di Chiara Romano via theguardian.com
Immagine di copertina via facebook.com/digdetoxuk