Quiet quitting? Quel che si dice su questo cosiddetto trend non ha senso
Il termine suggerisce una prassi per cui le persone lavorano più di quello per cui sono pagate. E indovina chi è più probabile che lo faccia?
Quando Kim Kardashian ha detto che le sembrava che nessuno avesse più voglia di lavorare, ha toccato un nervo scoperto. Questo perché le persone lavorano. E negli ultimi anni abbiamo dovuto lavorare durante una pandemia letale, una crisi economica, la riduzione drastica delle nostre libertà civili e il lento collasso della democrazia.
Quel che sta accadendo è che la classe lavoratrice – stanca, stressata ed esaurita – si sta riappropriando della propria facoltà di scelta e sta rifiutando lavori e condizioni lavorative inadeguate, scrive Tayo Bero sul giornale britannico The Guardian.
L’ultimo di questi atti di resistenza è il cosiddetto “quiet quitting”, termine coniato di recente sui lavoratori che fanno solo ciò per cui vengono pagati, senza farsi carico di mansioni aggiuntive né partecipare ad attività extra sul lavoro.
Dopo aver guadagnato popolarità in risposta al burnout causato dalla pandemia, il “quiet quitting” va decisamente di moda, specialmente tra i giovani che, per molti versi, hanno pagato il prezzo più alto durante questi tempi surreali.
E tutto ciò è grandioso, a parte il fatto che il “quiet quitting” non è qualcosa… almeno non dovrebbe esserlo. La nozione di quiet quitting suggerisce una prassi in cui le persone sono tenute a prestazioni aggiuntive, spesso compiti ingrati fuori dai propri mansionari, e in cui non fare questo lavoro aggiuntivo è considerato come “mollare” il proprio lavoro.
Forzare gli impiegati a fare lavoro extra e non retribuito è sbagliato, ma il dibattito sul “quiet quitting” solleva importanti domande in merito a chi in realtà fa molto di questo lavoro non retribuito. Secondo il libro The No Club: Putting a Stop to Women’s Dead-End Work, alle donne, per esempio, si chiede in maniera spropositata o ci si aspetta che si facciano carico del lavoro che nessun altro vuole fare, come organizzare la festa in ufficio, seguire quel cliente che fa perdere un sacco di tempo, ricordare i compleanni degli impiegati e così via. Dall’altra parte, “è molto semplice per gli uomini dire di no, perché [per loro] non ci sono conseguenze”, ha detto la co-autrice Lise Vesterlund al The Boston Globe.
Le donne razializzate portano il fardello di questo lavoro extra, e studi evidenziano come, rispetto agli uomini bianchi, le donne di colore in ufficio facciano più “faccende domestiche” e abbiano meno accesso al “lavoro glamour” (per es. il lavoro che ti fa notare dai superiori, o che potrebbe farti ottenere la prossima promozione).
Sempre le donne di colore, rispetto alle controparti bianche, hanno maggiore probabilità di avere un esaurimento e di non sentirsi a proprio agio nel parlare della loro salute mentale sul luogo di lavoro. E qui sta la crudele ironia del quiet quitting: le persone che hanno maggiore probabilità di avere un esaurimento sono anche le persone che meno possono permettersi una tregua come il quiet quitting.
La libertà di ridurre la tua dedizione al lavoro e di non preoccuparti della sicurezza del tuo posto di lavoro è di per sé un privilegio, uno di quelli che molte persone appartenenti a gruppi marginalizzati sentono di non poter avere, anche con il cambiamento nella cultura lavorativa.
L’altro lato negativo di questa silenziosa resistenza è che nel limitarsi a timbrare il cartellino qualcosa che si perde c’è. A molte persone in realtà piace dare il proprio contributo alla cultura organizzativa al di là dei risultati attesi.
Ridurre la partecipazione al lavoro ai tuoi doveri basilari ed espressamente indicati significa che non ti assumi più oneri del dovuto, ma significa anche che perdi molte delle cose che possono rendere un luogo di lavoro stimolante in prima battuta: organizzare feste, ricordare i compleanni delle persone, portare sorprese nelle occasioni speciali.
In ogni caso, le persone non sono tenute a lavorare più del dovuto. E fare solo il lavoro per cui si è pagati dovrebbe essere la prassi, non un atto di ammutinamento.
Traduzione di Valentina Cicinelli via theguardian.com
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