Il Pakistan travolto dal cambiamento climatico
Le piogge monsoniche hanno messo in ginocchio il paese, che rischia il tracollo economico e sanitario. L’ONU ha chiesto l’intervento delle “potenze mondiali”.
Il Pakistan è in stato di calamità: il monsone di quest’estate si è abbattuto sul paese asiatico con una quantità di pioggia 5 volte superiore alla media locale annua. Il risultato è un disastro epocale: 1.500 morti, 13mila feriti e 33 milioni di persone sono state coinvolte dagli esiti di un’inondazione che ha toccato un terzo del territorio.
Le piogge monsoniche hanno comportato lo straripamento di alcuni bacini idrici, come avvenuto per il fiume Indo – la cui esondazione ha provocato ingenti danni, specie nel sud del Paese. Nelle regioni di Belucistan e Sindh, non c’è stata speranza per le infrastrutture. Le inondazioni, infatti, hanno distrutto 680mila case, oltre 3.000 km di strade, 156 ponti e 800 mila ettari di coltivazioni. Interi villaggi sono stati cancellati, con la conseguenza che quasi 8 milioni di persone si trovano sfollate e in fuga dal territorio.
Il Pakistan non è nuovo a fenomeni di questo tipo: già negli anni Novanta si si sono verificati episodi di inondazioni monsoniche, poi ripetutisi nel nuovo millennio – nel 2010, venti milioni di individui rimasero senza casa. Il 2022 ha segnato un nuovo, triste record: basti pensare che le piogge sono iniziate a metà giugno e stanno scemando solamente in questi giorni.
L’inizio del periodo caldo aveva registrato numeri abnormi anche per quanto riguarda le temperature, che sono arrivate a 50/52 gradi centigradi. Vasti incendi e rapide fusioni di ghiacciai hanno anticipato il periodo monsonico che, come abbiamo detto, ha quintuplicato la quantità di precipitazioni medie estive (dati dell’Agenzia meteo Pakistan).
Anche il Pakistan, quindi, sta sperimentando gli effetti nefasti del cambiamento climatico. La perdita di 800mila capi di bestiame, del 70% delle coltivazioni e danni a oltre il 30% della rete idrica sono il bilancio di una catastrofe che ha colpito una nazione che vive di agricoltura – per la propria sussistenza e per l’esportazione. Fonti interne parlano di una prima stima di 40 miliardi di dollari di perdite, cifre che gravano su un’economia già dissestata da pandemia e guerra in Ucraina. Il costo della vita negli ultimi mesi, infatti, era già aumentato in modo grave e l’inflazione aveva raggiunto il 24%.
In questi giorni il ministro della Finanza pakistano Miftah Ismail ha assicurato che il paese non entrerà in default, grazie anche al sostegno di finanziamenti esterni. Banca Mondiale, Banca Asiatica di Sviluppo e Paesi come Qatar, Emirati, Arabia Saudita hanno previsto un appoggio complessivo di circa 9 miliardi di dollari entro l’anno. Eppure, per la Repubblica dell’Asia meridionale, è difficile non prevedere momenti difficili – non solo in termini economici e finanziari, ma anche sanitari.
Preservare la salute sarà arduo, senza un sistema idrico funzionante al 100%, senza cibo, senza riparo e, al tempo stesso, con infrastrutture e ospedali danneggiati o difficili da raggiungere. Per Medici Senza Frontiere e OMS, sul posto, sarà forte il rischio di epidemie di morbillo, dengue, malaria, diarrea se non addirittura colera. Per la sopravvivenza della popolazione sarà indispensabile l’intervento esterno: il Premier Sharif, in carica dallo scorso Aprile, dialoga da giorni con il corpo diplomatico per ottenere l’aiuto di altre Nazioni, sia in termini economici che di rifornimenti immediati.
Gerida Birukila, responsabile UNICEF in Belucistan, ha ricordato chiaramente che “Se il sostegno non aumenterà in modo significativo, temiamo che molte altre persone perderanno la vita”. Ed è l’UNHCR, l’Alto Commissariato ONU per i Rifugiati, a coordinare le attività logistiche di aiuti – al momento sono stati consegnati oltre un milione di prodotti salvavita. Uno dei portavoce, Babar Baloch, ha sottolineato che in Pakistan “La situazione rimane complicata“: dove le autorità e le agenzie umanitarie hanno intrapreso una “corsa contro il tempo” per cercare di prevenire ulteriori morti, ad esempio a causa di epidemie di nuove malattie.
Molto netta e concreta la posizione del Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, accorso sul posto: “Non ho mai visto un disastro simile tra le molte calamità cui ho assistito. Il Pakistan e altre nazioni in via di sviluppo – ha continuato – pagano un prezzo terribile per l’intransigenza di chi continua ad emettere gas ad effetto serra, di chi continua a puntare sulle energie fossili. Questa è una crisi mondiale ed esige una risposta mondiale”. Guterres avrebbe pronta la soluzione: “Chiedo a tutte le economie sviluppate di tassare i profitti imprevisti delle società di combustibili fossili. Tali fondi dovrebbero essere reindirizzati in due modi: verso i paesi che subiscono perdite e danni causati dalla crisi climatica ed alle persone in difficoltà per l’aumento dei prezzi del cibo e dell’energia“.
La volontà del Segretario ONU rispecchia l’idea per cui i paesi più poveri e meno sviluppati (che partecipano in misura inferiore al danneggiamento del pianeta) possano rivendicare una tassa globale legata al clima e basata sulla giustizia, come un modo per finanziare i pagamenti per le perdite e i danni subiti dai paesi in via di sviluppo. Un supporto “dovuto e morale”.
Nelle intenzioni di Guterres, esposte ancora in forma embrionale, i fondi potrebbero provenire da tasse sul carbonio, sui viaggi aerei, sui carburanti utilizzati i mezzi pesantemente inquinanti o sulle transazioni finanziarie. In questo momento storico, con crisi energetica e caro-vita in corso nella maggior parte di Occidente, c’è da essere poco ottimisti rispetto alla possibilità che un piano del genere venga sposato nell’immediato.
Intanto, l’argomento è pronto a essere discusso alla prossima conferenza UN sul clima la COP27, prevista a Novembre a Sharm El Sheikh. L’anno scorso, a Glasgow, lo stesso meeting aveva trovato consenso sulla necessità di cambiare lo stato delle cose ma non sulle modalità concrete per farlo.
Immagine di copertina via twitter.com/IOM_Pakistan