“Se piovessero stelle su questo deserto”: una storia vera raccontata da Javier Zamora
Javier Zamora ricostruisce ad anni di distanza la sua stessa storia, il viaggio della speranza quando era solo un bambino di nove anni e, senza la sua famiglia, ha attraversato il deserto.
Ho sempre più difficoltà a comprendere il concetto di confini. Ce lo insegnavano a scuola, durante l’ora di geografia, le Alpi a nord, i tratti di mare o i fiumi a delimitare i paesi come cornici di un quadro. Poi però nel tempo l’immagine quasi bucolica di montagne, mari e fiumi ha lasciato il posto a muri, filo spinato, militari armati e porti chiusi. E nella mia testa quel concetto iniziale di confine ha gradualmente assunto un significato inconcepibile, un’idea che prima ancora che ledere i diritti mi sembra ledere l’umanità. Perché alla fine non si parla di massimi sistemi e discorsi teorici, si parla di uomini, donne e bambini, di persone che, se dice bene, dovranno vivere sradicati e convivere con razzismo e intolleranza, e curarsi ferite e traumi per tutta la vita.
Abbiamo ricordato di recente l’anniversario della caduta del Muro di Berlino, giustamente celebrata e festeggiata. Quel muro aveva lacerato un paese, reciso legami, diviso famiglie, ne aveva spaccato in due la storia. E anche allora (con tanto di museo nella capitale tedesca a ricordarlo) gli uomini si erano ingegnati per scavalcarlo, aggirarlo, evadere da limitazioni artificiose in un’istanza di libertà e di ricerca di una via migliore che è quanto di più umano esista.
Da una famiglia divisa e dall’anelito verso una vita migliore prende le mosse “Se piovessero stelle su questo deserto” (UTET, 2022) di Javier Zamora che ad anni di distanza ricostruisce la sua stessa storia, il suo viaggio quando aveva solo nove anni.
Nel libro Javier è un bambino di El Salvador. Vive con i nonni e la zia. Per lungo tempo una guerra civile ha dilaniato il paese lasciando un’eredità di povertà e criminalità. I genitori hanno quindi deciso, decisione mai semplice e mai a cuor leggero, di emigrare.
In prima elementare ero l’unico con tutti e due i genitori lontani. Mali dice che sono andati via perché prima che io nascessi c’è stata una guerra, e dopo non c’era lavoro. Adesso […] nemmeno i miei amici hanno il papà e la mamma qui con loro.
Il padre è andato via da El Salvador quando Javier era piccolissimo, ne conosce solo la voce che sente al telefono.
Il papà non l’ho mai visto, o forse sì, ma non me lo ricordo. Dovevo compiere due anni quando è andato via. Al telefono sembra simpatico. Ha una voce roca e profonda, ma è comunque delicata come un sasso affilato che rimbalza sull’acqua.
Della madre invece ricorda “ogni cosa. La voce dura come un’onda che si frangeva quando la facevo arrabbiare. L’alito che sapeva di cetrioli appena tagliati”. E l’odore della pelle e dei capelli, e qualche episodio di quando viveva con loro a El Salvador. Perché anche la mamma, quando lui aveva cinque anni, è andata via, ha raggiunto il marito negli Stati Uniti con la promessa che un giorno Javiercito li avrebbe raggiunti.
Era il 1999, la vita era difficile, la Migra* sempre alle calcagna, il confine militarizzato ma almeno Trump faceva solo l’imprenditore. Già allora però ottenere un visto e poter raggiungere legalmente gli Stati Uniti con l’aereo era difficile.
La famiglia decide di affidare il bambino a un coyote, uno di quegli individui impegnati nella tratta di esseri umani, che clandestinamente fanno viaggiare le persone e le introducono illegalmente negli Stati Uniti.
Prendono il nome da una specie animale a metà tra un cane e un lupo, diffusa in Centro e Nord America e presente anche nel folklore dei nativi americani, spesso raffigurato come un imbroglione. I coyote, quelli bipedi, conoscono bene il territorio che attraversano e fanno attraversare, sanno adattarsi ma è bene non fidarsi troppo. Javier ne conoscerà suo malgrado più d’uno.
Di confini Javier ne attraverserà tre: in un viaggio della speranza verso nord, arriverà prima in Guatemala, poi in Messico e infine negli Stati Uniti. Il viaggio sarà fatto di lunghe tratte in autobus, della paura costante dei controlli della Migra, di brusche discese dai pullman, polvere e facce a terra, di permanenze di giorni in case di sicurezza da cui i migranti clandestini non possono uscire e in cui possono solo, e devono, mangiare e riposarsi in vista della tratta successiva, di cambi di programma, traversate in barca di sedici ore, camminate senza fine in mezzo al deserto aspettando di crossare, e poi altri furgoni e altre case di sicurezza dove rimanere nascosti fino a nuovo ordine.
La narrazione in prima persona permette al lettore di partecipare al viaggio dalla stessa prospettiva di Javier, di vivere i suoi timori, incertezze e paure. Di sentire il distacco, lontano dalle persone che l’hanno cresciuto per anni: forte sarà la mancanza dei nonni e della zia adorata e quella dei genitori con cui aspetta di ricongiungersi.
Javier ha solo nove anni e si trova in viaggio per sette settimane (in cui nessuno della sua famiglia ha più notizie di lui) da solo, con altre persone, in condizioni spesso difficilissime.
Queste circa quattrocento pagine volano via alla velocità della luce nella speranza di arrivare a destinazione insieme a Javier e sono piene di umanità. Se nella narrazione di situazioni analoghe la politica e il giornalismo odierni sembrano spesso non ricordare che di esseri umani si sta parlando, leggendo queste pagine non è possibile dimenticarlo. Tanto più nella vicenda di un bambino di nove anni: alla criticità di un viaggio del genere si sommano il non aver mai dormito prima fuori di casa o con estranei, il non essere ancora capace di andare in bagno e pulirsi da solo o di allacciarsi le scarpe. Javier talvolta vorrebbe far sapere alla sua famiglia che sta facendo il bravo bambino, che non si lamenta, che si lava da solo, che non ha mai pianto.
Voglio dire ai miei genitori che sto bene. Che mi mancano. […] Mi viene da piangere, ma non posso farmi vedere così da loro. Ingoio il rospo. Penso al mio parrocchetto, al mio cane […] Stringo i pugni. Mi concentro sul terreno. sul disegno delle foglie sugli alberi. Non posso piangere. Non piangere.
Troverà nel corso del viaggio una famiglia suppletiva, fatta di altri migranti come lui, che lo aiuterà e si prenderà cura di lui. Continuerà ad aver paura, a sentire il bisogno di abbracci, si sentirà un po’ meno solo.
La scrittura è lieve e piacevole: l’autore, giovane poeta ormai residente da anni negli Stati Uniti, ha dato forma e vividezza alla sua esperienza in pagine che non possono essere definite un semplice memoir. Laureato a Berkeley, scrive in inglese ma inserisce più volte nella scrittura termini e punteggiatura della lingua spagnola (come i punti interrogativi ed esclamativi capovolti all’inizio dei periodi). Il testo italiano, nel quale la traduttrice Francesca Pe’ ha rispettato le intenzioni autoriali, è altamente leggibile anche con tali incursioni.
Con questa scelta stilistica l’autore, migrante che ha vissuto e vive lo sradicamento e sentimenti contrastanti sulla propria identità divisa tra paesi diversi, trova e ritrova il suo io narrante bambino.
E il lettore vive un’esperienza immersiva, sarà alla stazione dei pullman insieme a Javier e agli altri, sentirà lo scarto delle varie parlate, avvertirà il passaggio da un paese all’altro, la difficoltà dei personaggi di farsi passare per messicani per non essere individuati come clandestini prima e non essere rispediti ancora più indietro dopo. Esperirà lo straniamento.
C’è in qualche modo il lieto fine. Si sapeva sin dall’inizio, in fondo l’autore ormai trentenne ha ora il privilegio di raccontarla quella storia. Eppure le pagine finali fanno male uguale. Perché quella traversata – come tutte le traversate – è stata un’esperienza enorme e durissima che nessuno dovrebbe vivere. Il libro, invece, questo libro, dovrebbero leggerlo tutti, aiuta a restare umani.
*Polizia impiegata a contrasto dell’immigrazione illegale.
Se piovessero stelle su questo deserto
Javier Zamora
Traduzione di Francesca Pe’
UTET, 2022
pp. 448, € 20, e-book € 9,99