In Etiopia è davvero finita la guerra del Tigray?
Attesa per il disarmo dopo due anni di conflitto, mentre Addis Abeba pattuisce con i combattenti i termini per la pace.
Situazione di stallo per la guerra nel Tigray: l’accordo di pace c’è ma stenta a decollare. L’intesa tra il governo etiope di Abiy Ahmed e i ribelli del Fronte Popolare di Liberazione del Tigray (TPLF) fa fatica diventare realtà: lo scorso 2 novembre, infatti, le parti si erano incontrate a Pretoria per firmare il cessate il fuoco con effetto immediato, ma nonostante ciò si è continuato a sparare – ed è stato necessario tornare sulla questione dopo dieci giorni.
Il 12 novembre, quindi, il comandante dei federali, Berhane Jula, è tornato a confrontarsi con il capo del TPLF Tadese Woreda per siglare una road map della pacificazione, giungendo a un’intesa su diversi punti. Tra questi la protezione dei civili da parte dell’esercito etiope, il libero accesso degli aiuti umanitari e l’impegno del governo centrale a ripristinare e garantire i servizi sociali basilari in tutto il Tigray come scuole, ospedali, elettricità e internet, la cessazione di ogni mobilitazione militare da entrambe le parti e il contestuale ritiro di tutte le truppe straniere impegnate sul territorio. Entro metà Dicembre è attesa la totale messa in opera del piano. Che non sembra potersi attuare senza ulteriori blocchi o incomprensioni.
Subito difficoltosa, ad esempio, è apparsa la questione del sostegno umanitario: la ricezione degli aiuti era stata garantita dal governo etiope ma non confermata dal Tigray. Il flusso di viveri, medicine e altro tipo di sostentamento è problematico nella regione a causa sia dei continui combattimenti ma anche perché rallentato dai frequenti controlli stradali e dalla difficoltà di percorrere strade e infrastrutture ormai seriamente danneggiate. Inoltre, sia il governo nazionale che quello regionale richiedono procedure lente di verifica sui carichi ricevuti e gli aerei, per esempio, devono atterrare tutti ad Addis Abeba prima di essere trasferiti a Mekelle, capitale del Tigray.
Del resto, il patto di inizio mese non era nato sotto i migliori auspici con diverse criticità emerse in partenza. In primis, la posizione che dovrebbe assumere da qui in avanti l’Eritrea: chiamata da Ahmed a supportare i federali, la nazione, che confina a nord con l’Etiopia e quindi direttamente con la regione del Tigray, ha avuto un ruolo non secondario in questi due anni di guerra civile ed ora difficilmente lascerebbe il campo di battaglia senza avere un ruolo nei negoziati.
Inoltre, chi si occuperà di monitorare l’effettivo raggiungimento, e, successivamente, mantenimento della pace? Le Nazioni Unite sono completamente escluse e non compaiono osservatori internazionali: l’andamento della situazione sarà vigilato solo da una cellula interna che riporta direttamente all’Unione Africana. Un protocollo di monitoraggio al quanto atipico rispetto allo standard degli accordi pace internazionale di alto livello.
Anche la gestione del sistema di giustizia e responsabilità rispetto alle violenze di questi anni è un argomento delicato, ma le modalità di attuazione, anche in questo caso, non prevedono l’intervento di Istituzioni come il Consiglio dei Diritti Umani delle UN o della Commissione Africana. Infine, è necessario sottolineare che i Tigrini avrebbero voluto un accordo direttamente con il loro Governo e non solamente con il TPLF.
Ricordiamo che la guerra civile nacque a inizio novembre 2020 da un contrasto tra il TFPL, che dominava la scena politica da oltre vent’anni, ed il neoeletto Ahmed. Quest’ultimo isolò progressivamente il TPLF dai centri di potere e da allora iniziarono tensioni sempre più forti con vicendevoli accuse di sopraffazione.
Il piano di pace, quindi, arriva dopo una guerra di due anni che ha determinato una situazione tragica, con la popolazione allo stremo: sono circa 500mila i morti per Amnesty International mentre secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità quasi il 90% dei Tigrini ha bisogno di aiuti alimentari e circa un terzo dei bambini sotto i cinque anni è affetto da malnutrizione. Ormai si contano oltre 2 milioni gli sfollati, centinaia di migliaia di persone soffrono la carestia. In questo biennio di sangue, inoltre, entrambe le parti hanno denunciato atti di pulizia etnica e violenze sessuali sistematiche.
Lo scorso marzo Amnesty International e Human Rights Watch avevano denunciato il governo di Ahmed e il TPLF per crimini contro l’Umanità. Ne è seguita una tregua di soli cinque mesi: ad Agosto sono ripresi scontri, violenze ed uccisioni, ad Ottobre sono stati avviati dialoghi di pace ed ora si attende che entro il prossimo mese vengano confermate le intenzioni di una pace definitiva.
Immagine di copertina via amnesty.org