“Sola andata”: il tempo, l’abisso, il viaggio senza ritorno

Tempo di lettura 9 minuti
Intervista a Claudia Bruno, autrice di “Sola andata”, romanzo “caleidoscopico” pubblicato da NN Editore.

In Sola andata, romanzo di Claudia Bruno pubblicato da NN Editore, incontriamo Ludovica e Cristian, una coppia di quasi trentenni che sta costruendo una convivenza in un cantiere, che adotta una gatta cieca – Ombra, creatura che li riavvicina e li ripara – e che poi conosce l’intermittenza della distanza: lui ottiene un lavoro a Londra, lei resta con la gatta Ombra dividendosi fra Roma e Londra. A questo punto il tempo sembra incepparsi, in un costante movimento avanti/indietro. Presa in questo moto perpetuo fra un prima e un poi, fra un ciò che era e un ciò che potrebbe essere, Ludovica decide di raggiungere stabilmente Cristian, apparentemente per ricomporre la vita di prima, di fatto intraprendere una caleidoscopica ricerca di sé.

 

Il caleidoscopio – che appare in una pagina del libro e che nella quarta di copertina è metafora del romanzo – è forse un concetto chiave, da portarsi dietro nella lettura, perché il caleidoscopio è uno strumento fatto di specchi dentro a un cilindro che ruota (contro luce) dando vita a un gioco di riflessi multipli e cangianti.

Cangiante è il nome della protagonista. Ludovica, Lù, Elle, Whistle, Lula. E molteplici sono i riflessi in cui la sua immagine si spezzetta (o si moltiplica) su finestrini di treni, aerei, autobus – un gioco di specchi nel quale a un certo punto Ludovica sente di perdersi, di dissolversi. «Al centro delle superfici riflettenti, davanti alle porte scorrevoli nei centri commerciali, non mi trovavo più – era la prova che stavo sparendo» (p. 118).

 

Siamo abituati ad articolare i nostri discorsi attorno al concetto di identità, a cercare parole-etichetta dietro cui rifugiarci, quando al centro delle nostre esistenze c’è soltanto un enorme vuoto. Questo vuoto mi interessa, nella nostra vulnerabilità risiede la radice della nostra forza.

Invece di trovare il proprio posto (una volta si diceva «sistemarsi») e sentirsi intera («mettere radici» in senso verticale), Ludovica attraversa i luoghi e non diventa mai una. Sente di espandersi e si trasforma. Il viaggio di Ludovica è forse anche un «passaggio di stato», un liquefarsi rispetto a un’anacronistica solidità, un ramificarsi come rizoma nell’ombra di una Londra sotterranea?

La Londra in cui Ludovica si muove è torbida e sommersa come le parti che non vogliamo vedere di noi. È il lato oscuro del capitalismo e delle sue promesse di felicità scintillanti. Ho scelto di raccontare una protagonista coraggiosa perché capace di restare fragile. Ludovica è assediata dai dubbi ma non teme il buio e invece di cambiare strada decide di attraversarlo, a rischio di perdersi. Le narrazioni in cui siamo immersi continuano a ripeterci che crescere significa trovare il proprio posto nel mondo, definire un programma di aspirazioni e raggiungere degli obiettivi per costruirci un’esistenza che corrisponda ai nostri desideri. “Diventare la versione migliore di te” è il claim delle nostre vite, come se la nostra forza coincidesse con il fatto di poter decidere tutto. È una narrazione consolante, ma spesso la trovo inadeguata. Negli anni in cui ho scritto Sola andata sentivo che a un livello più profondo non era così. Che la condizione umana stesse soprattutto nel fare i conti con la vita che ti sfugge di mano, con l’impossibilità di restare integri. Credo che non lo siamo mai, anche quando ci illudiamo del contrario. Siamo abituati ad articolare i nostri discorsi attorno al concetto di identità, a cercare parole-etichetta dietro cui rifugiarci, quando al centro delle nostre esistenze c’è soltanto un enorme vuoto. Questo vuoto mi interessa, nella nostra vulnerabilità risiede la radice della nostra forza.

 

Prendiamo aerei come autobus, seguiamo solo le nostre agende e i nostri progetti individuali. Le relazioni sono i nostri valori sostituibili, qualcosa da poter mettere in stand-by e riprendere quando e se ne avremo voglia. Ma non è vero che possiamo tornare dovunque.

Nella storia di Ludovica il tempo è una dimensione non lineare. Spesso ha l’impressione che vada al contrario, che le cose si muovano a ritroso. Tuttavia, se non è una linea retta, è però una linea orientata: non si torna mai allo stesso punto. Una spirale? Il titolo del libro, «Sola andata», potrebbe alludere a questo?

La mia vita degli ultimi anni è stata un continuo avanti e indietro, crescere nell’era delle compagnie low cost ha significato per me come per molti abituarsi a considerare gli spostamenti anche di lunga distanza come percorribili in qualsiasi verso. Prendiamo aerei come autobus, seguiamo solo le nostre agende e i nostri progetti individuali. Le relazioni sono i nostri valori sostituibili, qualcosa da poter mettere in stand-by e riprendere quando e se ne avremo voglia. Ma non è vero che possiamo tornare dovunque. Il rimando è in qualche modo al fatto che comunque decidiamo di raccontarcele, le nostre esistenze seguono un principio di irreversibilità: le azioni che compiamo, gli eventi che ci accadono, determinano svolte e conseguenze nei nostri percorsi, non è mai davvero possibile cancellare il passato e ripartire da zero. Ludovica inizia a rendersene conto nelle prime pagine, ogni volta che torna a Roma da Londra si sente diversa, la casa le sembra cambiata, tra tutte le opzioni “tornare” diventa l’unica davvero impossibile. È chiaramente il racconto di un vissuto emotivo. Il tempo impazzisce intorno al sentimento della nostalgia, Ludovica ha l’impressione che tutto si muova al contrario ogni volta che vorrebbe indietro la sua vita di prima. Ma deve fare i conti con la realtà, e la realtà corre dritta avanti, è un piccolo uragano che scivola al centro dei giorni portandosi via le cose che non si trovano più. All’origine c’è una mia personale crisi sul senso del tempo, e l’insofferenza nei confronti degli anni in cui vivo. Forse anche per questo ho popolato la storia di orologi rotti, e per certi versi l’ho immaginata leggermente scollata rispetto al presente. Le cattive notizie sono le stesse, ma le comunicazioni avvengono attraverso radiogiornali, vecchi telefoni col filo di gomma recuperati in garage, cabine a gettoni, e gli smartphone non fanno che scivolare dalle mani della protagonista e andarsi a schiantare sul pavimento.

 

Più che nella costruzione di sé Ludovica trova la sua strada in una decostruzione, perciò mi è capitato spesso di parlare di questa storia come di un romanzo di deformazione.

Durante uno dei suoi ultimi voli fra Roma e Londra, Ludovica incontra una astrofisica. Questo incontro riattiva in lei la memoria degli anni universitari: aveva abbandonato gli studi di geometria per iniziare a lavorare in un istituto enciclopedico come “addetta alle didascalie”. Questo episodio innesca la scrittura dei suoi quaderni di postulati, traduzioni, diagrammi, formule con cui cercare di fare ordine nel disordine. Una scrittura che diventa pian piano più astratta e che si incurva: «le frasi avevano assunto un’andatura orbitale, si avviluppavano intorno a figure ramificate e rotonde che confluivano in un foro centrale» (p. 210). Il linguaggio di Ludovica sembra sfaldarsi man mano che lei si perde e si frammenta sulle superfici riflettenti. A cercare di rincorrere un ordine precostituito forse si perde la parola? Oppure è una nuova lingua, quella che Ludovica crea? L’unica con la quale esprimere l’esperienza spiralica della ricerca (o costruzione) di sé?

La geometria, così come il pensiero razionale di Cristian che aspira a una carriera da scienziato, rappresenta per Ludovica uno strumento di emancipazione dalla sua famiglia d’origine, una famiglia che si è formata intorno a un groviglio di credenze indimostrabili. Il lavoro all’istituto per cui interrompe gli studi e dove diventa addetta alle didascalie di grafici e figure, offre una risposta immediata a questa spinta e allo stesso tempo la mette a profitto di un mercato immateriale che si nutre di mansioni invisibili e frammenta le competenze. Nessuno perde mai la parola in questa storia ma a mano a mano che i silenzi tra Ludovica e Cristian si allargano, cambia la lingua con cui Ludovica si rivolge a se stessa. I quaderni, che sono la naturale prosecuzione della Piccola enciclopedia della luce a cui la vediamo lavorare incessantemente all’inizio del libro, rappresentano una traccia di questo fraseggio interiore, che parte come un trattato logico e a mano a mano si trasforma in un delirio quasi mistico (rispecchiando un fatto di cui in qualche modo abbiamo esperienza tutti: più cerchiamo di strapparci di dosso qualcosa, più quello ci ricresce addosso stretto). L’incursione della lingua straniera nell’evoluzione di Ludovica funziona un po’ come l’acqua che spezza la luce, realizza e propaga un processo di disintegrazione, si innesta tra le pagine del discorso intimo che Ludovica compone pezzo per pezzo, strato su strato, come un collage. La scrittura è un prisma che assorbe e deforma la vita, permette al pensiero di farsi materia, incarnarsi. Mentre scrivevo mi chiedevo, e ancora oggi mi chiedo, se possiamo trovare sollievo nella pazzia, se liquidiamo come folle ogni tentativo di liberazione dalle aspettative dettate dal comune sentire. Più che nella costruzione di sé Ludovica trova la sua strada in una decostruzione, perciò mi è capitato spesso di parlare di questa storia come di un romanzo di deformazione.

 

Ho iniziato a lavorare a questa storia dopo aver sognato una ragazza che inseguiva un animale, oggi a volte penso che sono stata io ad aver seguito Ombra fino all’ultima pagina.

Ludovica affonda nell’abisso, lo attraversa, lo abita, nel suo viaggio di sola andata. Ludovica è una sopravvissuta, ma il suo sopravvivere non è solo un restare in vita, è anche un «vivere sopra», più degli altri, vivere a un livello superiore, più profondo. Forse è anche per questo che il suo rapporto col non-umano è così intenso. In particolare è intenso il rapporto che Ludovica ha con la gatta Ombra. Questa grande sensibilità per l’animale ci ricorda le riflessioni di una grande autrice del Novecento: Anna Maria Ortese. Senti un’affinità con la sua produzione letteraria?

Ti ringrazio molto per l’accostamento, Ortese non è stata tra le letture che facevo mentre scrivevo, ma quando l’ho letta mi sono ritrovata vicinissima al suo modo di sentire così sovrannaturale, ultraterreno, la sua voce mi risuonava dentro dolorosamente per il suo farsi sempre istanza di un’ingiustizia, di un’esclusione. In Sola andata io volevo raccontare anche di come le politiche economiche degli ultimi anni abbiano reso le persone più giovani i nuovi poveri dell’Europa. Dell’importanza che hanno i soldi nell’andamento delle nostre vite, di come le città in cui approdiamo accecati dall’ambizione di diventare qualcun altro siano giganti macchine escludenti e classiste. Di quello che si prova a restare chiusi fuori dalle proprie vite possibili, dei ragazzi e delle ragazze che vanno a vivere sulle barche nei canali o sui marciapiedi davanti alle vetrine. Sì, il racconto di Ludovica è quello di una sopravvissuta. E in qualche modo è proprio Ombra a mostrarle l’uscita dal labirinto. Questa forse è l’unica cosa che sapevo prima di iniziare a scrivere, ma mi è diventata opaca scrivendo, è come se l’avessi fatto in preda a un attacco di sonnambulismo. Ne sono diventata pienamente cosciente ascoltando le parole di chi il romanzo l’ha letto, tempo dopo la sua pubblicazione. Ho iniziato a lavorare a questa storia dopo aver sognato una ragazza che inseguiva un animale, oggi a volte penso che sono stata io ad aver seguito Ombra fino all’ultima pagina. A volte mi chiedo se la seguirò per sempre. Per me la sua figura rappresenta l’amore incondizionato, il limbo tra la veglia e il sonno, la nostra parte inaddomesticabile, e insieme la magia della scrittura.

Intervista a cura di Sara Concato

Claudia Bruno è una scrittrice e giornalista culturale. È redattrice editoriale della rivista inGenere e collabora con le pagine culturali del Manifesto. Suoi articoli e racconti sono su Il Tascabile, Minima&Moralia, Not, Cadillac, Colla, Inutile e altre riviste. Ha esordito nel 2016 con Fuori non c’è nessuno (effequ). Il suo romanzo Sola andata è stato pubblicato da NN nel 2022.

Sola andata
Claudia Bruno
NN Editore, 2022
pp. 240, € 17

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