“Future”: parole di una rivoluzione
Nel 2019 esce per effequ un’antologia di storie narrate da autrici che – tra dolore, rabbia e speranza – sfidano la retorica dell’identità unica, agitano la memoria di un passato rimosso, e raccontano l’italianità creola che stereotipi e pregiudizi cercano di silenziare.
Sono già decenni che esiste una letteratura scritta in lingua italiana da autori e autrici di origini altre. Inizialmente la cosiddetta “letteratura migrante” o “letteratura della migrazione” suscitò grande interesse. Varie case editrici si dedicarono alla pubblicazione di opere scritte da autori e autrici immigrati in Italia oppure – poco più tardi – dalla cosiddetta “seconda generazione”: i loro figli e le loro figlie. Anche la critica dedicava attenzione a questo fenomeno nuovo e rigenerante per la letteratura di un paese che non ha mai veramente fatto i conti con un certo passato. Alcune di queste nuove voci letterarie provenivano infatti da paesi che hanno conosciuto l’invasione dei nostri eserciti e l’occupazione italiana (Eritrea, Libia, Somalia, Etiopia) tra la fine dell’Ottocento e il 1960. Proprio nel 1960 la Somalia ottiene definitivamente l’indipendenza.
È significativo che uno dei primissimi testi di questa letteratura sia Lontano da Mogadiscio, di Shirin Fazel Ramzanali, autrice di origine somala che nel suo libro pronuncia una sorta di J’Accuse nei confronti dell’opera colonialistica dell’Italia nel suo paese di origine, devastato da guerra civile e da anni di sfruttamento imperialista.
Anche Future. Il domani narrato dalle voci di oggi, raccolta di racconti a cura di Igiaba Scego e pubblicata da effequ nel 2019, assume nelle parole della sua curatrice i tratti di un J’Accuse contro un’Italia immobile e distopica in cui ancora echeggia un “noi” avverso a un “loro”, in cui un presente razzismo ci dice che ancora non si sono fatti bene i conti con un passato colonialista e fascista.
Ma non è solo un J’Accuse, e lo capiamo già dal titolo – dalla copertina persino: Future è anche una proiezione in avanti, l’immaginazione di un domani. Un domani in cui l’Italia accoglierà finalmente la pluralità e la multiculturalità?
Camilla Hawtorne nella prefazione parla dei backgroud culturali diversi delle autrici dell’antologia, così come delle diverse forme letterarie in cui i loro testi si sviluppano. L’esperienza del confine, del margine, è forse ciò che accomuna tutte: di un margine inteso sia come frontiera che separa sia come linea che unisce. Il loro “vivere tra” può ricordare anche agli italianissimi che l’identità verticale è illusoria, che anche l’italianità è pure illusione, che gli esseri umani si portano dietro e dentro tanti fili, rami di un rizoma che orizzontalmente connette i diversi mondi a cui appartengono.
La postfazione di Prisca Augustoni si intitola appunto “Una comunità porosa”, richiama il concetto di transcultura, di dialogo fecondo fra diverse realtà, ed evoca la metafora della barriera corallina: confine, margine vivace e vitale per eccellenza.
“C’era fame di storie”, scrive Igiaba Scego a pagina 12. E quella fame c’è ancora. E di queste storie e voci poco ascoltate l’editoria deve farsi carico, imponendo a chi legge interrogativi e riflessioni che costruiscano sentieri diversi da quelli finora battuti. Sentieri più luminosi, come quella strada d’oro che sta sulla copertina del libro – opera di Chiara De Marco -, costeggiata da vegetazione rigogliosa e calpestata a piedi nudi da una figura femminile in cammino.
Il primo racconto, di Marie Moïse, Abbiamo pianto un fiume di risate, evoca da subito lo scenario della tratta degli schiavi, trasportati dalle coste africane a quelle caraibiche, e la recisione violenta di un passato che si perde fra le acque dell’oceano. Recisione che avviene una seconda volta, per la fuga dal regime dittatoriale della Haiti di Duvalier. L’autrice accenna a Pelle nera, maschere bianche di Frantz Fanon, intellettuale martinicano che ha indagato i meccanismi di oppressione del soggetto bianco sul soggetto nero, introiettati da quest’ultimo. La vergogna e il senso di inferiorità distruggono la psiche del colonizzato, del subalterno, e fanno tabula rasa della memoria nera.
Marie Moïse scrive un racconto toccante, penetrante, da cui trarre frasi da scolpire nella pietra: “La normalità è la condizione di chi ha il potere di farti sentire sbagliato” (p. 41); “Ammalarsi è stato il modo migliore di resistere a una società che impone un insalubre e unico modo di essere sani” (p. 46).
Il secondo racconto è di Djarah Kan, Il mio nome: contro l’oblio degli antenati, il “nome segreto” rappresenta il filo di una memoria che non si spezza, che non cede all’esigenza di un nome europeo pronunciabile dai bianchi senza difficoltà, che non perpetua un complesso di inferiorità inculcato da chi ha preteso il potere sulle parole. Il terzo racconto, di Angelica Pesarini, Non s’intravede speranza alcuna, narra di una ricerca fra documenti che rivelano la storia dei figli dimenticati del colonialismo italiano: italiani neri di cui nulla si doveva sapere.
Nel quarto racconto, La veglia dell’ultimo dell’anno di Ndack Mbaye, un veglione di capodanno diventa veglia funebre, fra dolore, fatalismo, tradizioni e condivisione. Nel quinto racconto, invece, Zeta di Lucia Ghebreghiorges, tra sogno e fantascienza, l’anziana protagonista affronta un passato dimenticato, un’altra vita che però le resta dentro ed emerge dal buio attraverso immagini come diapositive proiettate dai suoi occhi.
Il sesto racconto, Nassan Tenga di Laeticia Ouedraogo, ha la forza di un pugno nello stomaco. Un padre che fatica a dire il passato, che ha vergogna dello sfruttamento incontrato in Europa, una terra falsamente accogliente in cui un titolo di studio preso nel paese sbagliato può non valere nulla. Il senso di fallimento chiama dolore, in una spirale infinita di sofferenza che si riversa sulla generazione successiva. In una scrittura carnale e potente, che non esita a usare muffa e muco per le sue metafore, emerge una questione cruciale, il circolo vizioso di povertà e discriminazione razziale che poggia pesante sulle spalle e sul rendimento scolastico, l’incapacità di essere compresi da un sistema che ti marchia come elemento difficile, da distogliere dallo studio. E poi, la presa di coscienza e la ribellione allo stato di cose: “Volevamo abbandonare la fabbrica, i bagni degli hotel, i lavandini delle cucine per superare il pregiudizio, ormai interiorizzato, sulla nostra incapacità a contribuire anche intellettualmente allo sviluppo dell’Italia” (p. 119). Prendere la parola – non farsela dare come gentile concessione – aprire gli stereotipi e costruire nuovi modelli di pensiero.
A tale proposito, il racconto successivo, La maratona continua di Addes Tesfamariam, denuncia proprio la tendenza strisciante nella società europea bianca a identificare automaticamente la pelle nera come “l’alieno”. Anzi, “l’alieno inferiore”. Leïla El Houssi, ne L’incanto della memoria, celebra il potere della narrazione, dei racconti delle nonne che mettono insieme il puzzle della memoria. Nonne di provenienza diversa le cui parole si intrecciano come i fili di un patchwork.
Segue Eppure c’era odore di pioggia di Alesa Herero, dove – come nel racconto di Djarah Kan – elemento importante del racconto è un nome, un nome che per scelta la protagonista decide di abbracciare e tenere insieme due mondi, due identità, facendosi così sinonimo di “forza”. Nel penultimo racconto, Che ne sarà dei biscotti, di Wii, il discorso sulla radice unica si sfilaccia e va in direzione di una forma liquida e contro l’uniformità a tutti i costi persino la scrittura si sforma, mentre porta avanti la metafora di biscotti multiformi e diversi, più buoni e saporiti di quelle formine tutte uguali sigillate nei sacchetti industriali.
Esperance H. Ripanti conclude la raccolta con Lamiere, titolo che evoca l’omicidio di Soumaila Sacko e insieme a lui tutti quei corpi spazzati via dalla violenza dell’odio razzista. L’autrice ci narra infatti una distopia che nasce proprio nel presente che tutti conosciamo e viviamo. Lo vediamo quotidianamente: il Mediterraneo oggi è un oceano che uccide piuttosto che un mare che unisce. Potrebbe ricordarci la natura liquida delle nostre identità fatte di incontri, di scambi, di intrecci. E invece si fa cimitero di speranze.
In questa raccolta di racconti più voci, più storie e più paesi si incontrano, tessendo insieme una trama nuova. Haiti, Ghana, Eritrea, Senegal, Etiopia, Burkina Faso, Tunisia, Capo Verde, Marocco, Italia. C’è un filo di ribellione che attraversa le storie, dagli schiavi marrons, alla rivendicazione di un nome, all’evasione dall’istituto per i “figli della vergogna”, alla reazione intellettuale, al ritorcere la discriminazione al mittente, trasformando il vissuto di abusi in lotta.
La dimensione della lotta si accosta a quella della letteratura. E nell’immobilismo dell’Italia attuale, o persino nella regressione vera e propria, è quanto mai necessaria la dimensione militante della letteratura. “Memoria” è indubbiamente una parola chiave lungo le narrazioni e se la memoria non viene ristabilita, non ci può essere quel futuro, quel domani che ci guarda dalla copertina del libro.
Future. Il domani narrato da voci di oggi
Leila El Houssi; Lucia Ghebreghiorges; Alesa Herero; Esperance H. Ripanti; Djarah Kan; Ndack Mbaye; Marie Moïse; Leaticia Ouedraogo; Angelica Pesarini; Addes Tesfamariam; Wii
a cura di Igiaba Scego
effequ, 2019
224 pagine, € 15
Recensione di Sara Concato