Da Pechino a Bangkok l’incubo degli Uiguri non trova fine
Continua a essere drammatica la situazione per gli Uiguri detenuti in Thailandia: si muore per mancanza di cure, nonostante i richiami delle Nazioni Unite.
La condizione degli Uiguri ritorna a suscitare l’interesse della comunità internazionale, ancora una volta per eventi drammatici. A pagare con la vita, questa volta, è stato Aziz Abdullah, 49enne detenuto nel Centro Detenzione Immigrati (IDC) di Bangkok: dopo venti giorni di agonia, Abdullah è morto la settimana scorsa all’ospedale locale, dove era stato trasportato quando, ormai, non c’era più niente da fare.
Secondo una testimonianza di attivisti Uiguri raccolta dalla BBC, al Centro dove Abdullah era costretto hanno rifiutato le cure necessarie finché non è stato troppo tardi. Si torna a parlare, così, del destino del popolo Uiguro, represso e costretto tra Cina e Thailandia da quasi 10 anni e sulla cui condizione si sono già espresse più volte l’ONU e Human Right Watch (WHR).
Per Phil Robertson, vicedirettore proprio di HRW, non ci sono dubbi: “Questa morte è un risultato del tutto prevedibile di una decisione politica thailandese di rinchiudere persone e, praticamente, di gettare via la chiave”.
Sono diversi i gruppi di attivisti a sostegno dei diritti umani che nel corso di questi anni si sono interessati alla condizione degli Uiguri in Thailandia, e i riscontri sono stati sempre tragici. Per la ONG locale People Empowerment Foundation, le condizioni negli IDC sono pessime: “Gli uiguri vivono isolati dal mondo esterno, senza contatto neanche tra loro. Inoltre – sottolinea – c’è un forte sovraffollamento. Il cibo scarseggia e quello che c’è è di cattiva qualità; non è previsto cibo halal per i musulmani”.
Anche l’assistenza sanitaria, come testimonia la morte di Abdullah, è scarsamente garantita: “In caso di malattia si provvede con antidolorifici o farmaci simili”, stando alla denuncia di PEF.
Gli Uiguri sono una minoranza cinese. All’incirca sono 12 milioni di persone, parlano una propria lingua di famiglia turcofona e sono a prevalenza musulmana: vivono insieme ad altre minoranze nella regione autonoma dello Xinjiang, nel nord ovest della Cina, costituendone meno della metà della popolazione. Qui vengono discriminati e repressi attraverso politiche di detenzione e controllo demografico: lo scorso autunno, dopo anni di osservazione, l’ONU ha presentato un Report di 48 pagine con cui accusa il governo cinese di gravi violazioni dei diritti umani, tortura e crimini contro l’umanità – visti gli abusi verso la popolazione uigura ed altre minoranze musulmane nella provincia di Xinjiang.
Il rapporto è il frutto del lavoro di ricercatori, attivisti di organizzazioni come Human Rights Watch e Amnesty International ed è stato realizzato con la collaborazione di testate di diversi Paesi che hanno parlato con familiari o conoscenti dei detenuti e hanno cercato di avvicinarsi il più possibile alle strutture. Oltre a denunciare la gravità della situazione, viene chiesto a Pechino di rilasciare i detenuti e informare le famiglie degli scomparsi sulle condizioni di questi ultimi.
Accolto con favore da Stati Uniti, Giappone e Unione europea, il report è stato rigettato dalla Cina. Secondo Pechino si tratterebbe di una “Farsa architettata dai poteri occidentali”, come ha dichiarato il portavoce degli Esteri Wang Wnbin – che ha tacciato i diversi resoconti come “Disinformazione per raggiungere obiettivi politici”.
"Made in Slavery": l'atroce realtà delle fabbriche cinesi e la repressione contro gli #uiguri nello #Xinjiang in un #podcast di @EleMongelli: la nostra intervista alla vicepresidente @FedDirittiUmani 👉 https://t.co/pBMvKUpzv6.#StopUyghurGenocide #dirittiumani #Cina @hrw pic.twitter.com/Xe5CLC2XdR
— Ghigliottina News (@Ghigliottina) April 11, 2021
Non si tratta di una strategia politica per le organizzazioni di Diritti Umani, che nel corso del tempo hanno confermato la presenza di “campi di ri-educazione” dove è costretto circa un milione di Uiguri. In questi posti, spiega il rapporto delle Nazioni Unite, si verificano torture, trattamenti medici coercitivi, sterilizzazione e aborti coatti. Nello Xinjiang, anche le politiche occupazionali e retributive sono macchiate da discriminazioni etniche e religiose.
Nel 2013 oltre 350 Uiguri sono fuggiti dalla Cina e si sono diretti verso la Turchia per richiedere asilo, ma sono stati bloccati e detenuti in Thailandia. Abdullah e la sua famiglia erano tra questi. Da quel momento gli Uiguri sono stati trattati come prigionieri e oggetto di tensione tra Thailandia e Cina da una parte e Turchia e UN dall’altra. Nel 2015 il governo locale ha accettato di lasciare liberi di proseguire verso la Turchia 173 di loro, ma per altri 109 il destino è stato diverso: sono stati rimpatriati a forza.
Quest’episodio ha esasperato gli animi degli Uiguri, che hanno reagito con diverse violente rappresaglie verso le istituzioni cinesi e thailandesi: una di queste, l’esplosione di una bomba alla banca centrale di Bangkok, ha ucciso 20 tailandesi. Su tali episodi si fonda la difesa della postura di Pechino, che motiva i centri di detenzione come “strumento per contrastare il terrorismo” e altri atti criminali degli Uiguri in nome dell’indipendenza.
Uyghur
Se gli Uiguri venissero rilasciati, stando alle ONG, sarebbero alte le possibilità di asilo e cittadinanza da parte di altre Nazioni, soprattutto dalla Turchia. Quando è uscito il Rapporto, lo scorso autunno, la Thailandia si era già impegnata ad essere più attiva in termini di attenzione e monitoraggio delle condizioni degli Uiguri ma, ad oggi, poco è stato fatto: pare che la volontà del partner politico Cina sia la prima preoccupazione dei thailandesi.