L’intenso memoir di Bernardine Evaristo è un’esortazione per chi vive ai margini

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In attesa che arrivi in Italia, El Cultural ci racconta il memoir dell’autrice di “Ragazza, donna, altro” (Edizioni SUR, 2020 – Booker Prize 2019).

Manifesto: On Never Giving Up è un memoir, un’indagine letteraria incentrata sui ricordi e l’eredità familiare che Bernardine Evaristo (Eltham, Londra, 1959) costruisce in maniera coraggiosa, ovvero, senza pregiudizi né freni, con uno stile sfacciato e fresco, con un ritmo intenso che rasenta l’oralità e fa sentire il lettore in una conversazione molto accogliente e intima con una cara amica.

Questo libro però è anche un manifesto in cui l’autrice invita quanti sono marginalizzati, quanti sono considerati un peso o un fastidio, a non lasciarsi abbattere, a essere fieri e imperfetti, selvaggi, disobbedienti, stridenti e orgogliosi. Questo manifesto è forse soprattutto un modo per rispondere senza soffrirne a tutte le vessazioni subite sin dalla nascita.

Suo padre, immigrato nigeriano, arrivò in Regno Unito nel 1949 sulla Good Ship Empire; sua madre, britannica e bianca, nacque da una famiglia di operai. Si conobbero nel 1954 durante un Commonwealth dance, a Londra. Lei, che aspirava alla classe media, studiava in una scuola cattolica di Kensington per diventare insegnante; lui si guadagnava da vivere come apprendista-saldatore. Sono stati insieme 33 anni. Hanno avuto otto figli in dieci anni. Poi hanno divorziato.

Bernardine Evaristo: una bambina di estrazione proletaria in una società che aspirava alle comodità della classe media e che guardava con sospetto e ripugnanza alla povertà; una donna meticcia in un quartiere di bianchi; una famiglia cattolica in un ambiente potestante; una giovane bisessuale in una società conservatrice e timorata. Evaristo: un tornado ribelle in un mondo in cui pressioni culturali organizzano la vita delle persone secondo compartimenti ristretti; tra questi, fondamentale nel libro, la razza. 

Non importava che fosse per metà bianca o che fosse nata in Inghilterra, la sua pelle marrone la marcava come nera, immigrata, straniera, marginalizzata, un’intrusa.

Sono nata in questo paese, l’unico in cui abbia mai vissuto, per quanto mi si facesse notare che in realtà non ero di qui perché non ero bianca. Tuttavia, per me la Nigeria era un’idea molto remota, un paese in cui era nato mio padre e di cui non sapevo nulla”. Solo nel 1976 la legge tutelò pienamente la dottrina antirazzista e penalizzò il razzismo. Nel frattempo, non esistendo ancora il concetto di Black British, la famiglia dovette sopportare insulti e attacchi contro i corpi e contro la casa fatiscente in cui vivevano.

A fare più male era la violenza che veniva dalla parte materna: tutta la famiglia senza eccezioni era contraria a quel matrimonio preoccupata per l’indigenza in cui avrebbe vissuto la figlia. Di origine ebraica e irlandese, sapevano bene cosa significa vivere una vita subalterna, condannata e disprezzata. Ovvero, come afferma l’autrice, “albergava in noi l’eredità dei nostri antenati”.

Manifesto è il suo modo di smettere di subire, la trasformazione della rabbia in potenza creativa, la difesa dell’insignificanza come forza motrice per vivere a modo proprio. Attraverso il teatro, la letteratura, i vestiti stravaganti, l’esplorazione del corpo come carne e desiderio, Evaristo si è resa visibile a un mondo che insisteva nel dirle che era meglio se non si faceva vedere e non disturbava. Ha abbracciato la condizione di persona marginalizzata non dico con allegria, ma sicuramente con convinzione. Niente è riuscita a fermarla: né che altre bambine la chiamassero scimmia né che durante un’audizione teatrale le esaminassero i denti come si fa a una vacca o a una schiava.

Né che altre persone vittime di razzismo la accusassero di essere una cattiva nera per il fatto di non conoscere le usanze della terra di suo padre, un uomo che ha dato la vita per i diritti sociali ma che è stato un pessimo genitore; duro, violento e privo di compassione, non ha mai dato ai suoi figli una dimostrazione di affetto.

È stata sua madre ad amare i figli, ad incoraggiarli sin da bambini affinché non si lasciassero abbattere dalle norme sociali che dicevano loro chi erano e come dovevano vivere. A non sottomettersi mai.

Bernardine Evaristo, che a messa aveva imparato che i preti erano razzisti e i parrocchiani degli ubriaconi, ha smesso presto di seguire le pratiche dei credenti, ma ha abbracciato il teatro come religione pagana; non invano, terminata la scuola, ha studiato Arte Drammatica. E si è resa indipendente. Ed è diventata femminista. Ha fatto mille lavoretti e nel frattempo andava a letto con ragazzi e donne. Alla fine degli studi ha fondato una compagnia di teatro sociale e comunitario. Faceva avanti e indietro.

Ha iniziato a scrivere poesia. Finché non ha conosciuto suo marito nel 2005 su un sito di incontri, ha sofferto a causa di amanti violente e uomini rancorosi. È stata nomade nella sua città, Londra, e non ha acceso un mutuo fino ai 55 anni. Eppure, non ha mai sentito di non avere una casa perché ha trovato nella scrittura le sue radici più profonde o, come scrive in Manifesto, “scrivere divenne la mia dimora abituale”. E così, quando verso i trent’anni ha lasciato il teatro, ha riversato tutti i suoi desideri nella letteratura. Ha sperimentato, ha commesso errori, ha mescolato generi, ha riscritto, ha cercato, ha scoperto, ha vinto.

Nel 2019 ha vinto il Booker Prize per il libro Ragazza, donna, altro, un omaggio alle donne nere e alle persone non binarie.

Con Manifesto, con questa intensa prova di scrittura, Evaristo colma i vuoti dell’eredità familiare e rende un omaggio appassionato e onesto al padre e alla madre, complessi e imperfetti, come tutti. Perché quest’opera autobiografica è, più di ogni altra cosa, la celebrazione dell’amore oltre le divisioni geografiche o di razza, invenzione culturale che si aggrappa alla pelle e che non molla.

Ben oltre la famiglia, però, Manifesto è anche la rivendicazione di una Gran Bretagna aperta e diversa, e un tributo a Londra, città che diviene quasi musa o tempio. L’autrice scrive per fare propria l’eredità dei suoi antenati. Dal corpo alla scrittura o, meglio, la letteratura come organismo vivente e vorace che trasforma l’esperienza di vita in parola collettiva, in linguaggio comune che chiama in causa qualunque lettore che sappia cosa significa sentirsi sradicato, spaesato o marginalizzato.

Che si sia sentito invisibile, che sia stato insultato, che abbia sperimentato l’essere un corpo sbagliato o molesto. Non dobbiamo sparire, non bisogna tacere, ci dice Evaristo. È necessario lasciare un sussurro di noi nel mondo. E questo è Manifesto, il fantasma di una vita riversata in parole.

Traduzione di Valentina Cicinelli da El Cultural

Immagine di copertina via twitter.com/WomenRead

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