“Tutti non ci sono” di Dario D’Ambrosi, autobiografia di un insaziabile
Nel mese dedicato alla salute mentale, parliamo di Dario D’Ambrosi e della sua autobiografia, della storia di un incontro speciale fra teatro d’avanguardia e malattia mentale.
Siamo a maggio, mese della consapevolezza sulla salute mentale. In questo mese ricorre l’anniversario della cosiddetta legge Basaglia – la 180 del 13 maggio 1978. Con questa legge l’Italia è stata il primo paese al mondo a chiudere i manicomi. L’Italia è stata anche la prima ad aver istituito un corso universitario di “Teatro integrato dell’emozione” per persone con disabilità fisica e psichica. Questo corso di studi è stato aperto nel 2016 dal Teatro Patologico, in collaborazione con l’Università Tor Vergata di Roma e il MIUR.
Il Teatro Patologico nasce nel 1992 per opera di Dario D’Ambrosi, protagonista del teatro d’avanguardia che si racconta nel libro pubblicato nel 2022 da Le Commari, Tutti non ci sono. Il bellissimo disegno in copertina di Maria Corona Squitieri riallaccia il titolo del libro a quello dello spettacolo con cui Dario D’Ambrosi stupì e conquistò il pubblico newyorkese e poi del mondo intero.
“Dario non è affamato: è insaziabile”, scrive Andrea Delogu nella postfazione all’autobiografia.
Originario di San Giuliano Milanese, periferia povera dove abitavano tanti meridionali immigrati al Nord, quelli che si spostavano in massa tra gli anni ’50 e ’60, quelli che si sacrificavano spaccandosi la schiena per dare una casa ai figli, e che contemporaneamente si indurivano l’anima imponendo severità e punizioni – anche violente – alla prole. Dario svolge una serie di lavori – avrà persino una parentesi di carriera calcistica nel Milan – prima di raggiungere quella che per lui è stata una doppia illuminazione: un laboratorio di teatro e l’esperienza del manicomio. Inizia a seguire una scuola di teatro, poi decide di farsi internare nel manicomio “Paolo Pini” di Milano.
L’autore “lancia” questa cosa negli occhi del lettore senza preamboli, con la semplicità e la crudezza che caratterizzano l’intera sua autobiografia. Un’autobiografia breve, fatta di momenti salienti che saltano dalla pagina a chi legge con quella vitalità che caratterizza la persona e l’attività di Dario D’ambrosi. “Solo chi ha vissuto quegli anni in quei corridoi può capire cosa accade quando il corpo si ribella in ogni sua parte e con tutte le sue forze ti porta a sbattere la testa contro il muro fino a farti spappolare il cervello” (p. 58). Per non impazzire si allena a chiamare le cose con il loro nome, il bicchiere “bicchiere” e il tavolo “tavolo”, senza mai sbagliare.
Arriva così l’idea di raccontare quello che ha visto, la condizione degli internati. Nasce quindi lo spettacolo dal titolo Tutti non ci sono, che prende spunto da una scritta davanti al manicomio di Aversa, “tutti non ci sono, tutti non lo sono”. Tutti non sono rinchiusi, tutti i rinchiusi non sono matti.
Lo spettacolo è bello e potente, ma i grandi teatri non gli aprono le porte. Dario perciò parte alla volta degli Stati Uniti, portandosi dietro come unico bagaglio il costume di scena: una camicia di forza.
A New York deve prima di tutto sopravvivere, quindi inizia a lavorare, facendo anche il lavapiatti – un lavoro per cui la conoscenza della lingua inglese non era necessaria. Un giorno, un palco montato in un’area di Central Park scatena un’altra illuminazione: voler rappresentare lì il suo spettacolo. Ma quello è un palco per Shakespeare e per le celebrità. La soluzione è Café La Mama, che non è un bar, ma un teatro sperimentale fondato e gestito da Ellen Stewart.
Lo spettacolo di Dario D’ambrosi è un successo.
Il suo è in effetti un pezzo d’avanguardia: un filmato mostra un paziente psichiatrico uscito da un ospedale con in mano una gabbia vuota che cammina da solo fino alle porte del teatro; a quel punto inizia l’azione scenica vera e propria. Recita a contatto con gli spettatori riproducendo quella situazione che nella realtà si verifica quando il “sano” e il “malato” si incontrano, facendo riflettere sui confini di ciò che definiamo normalità e follia.
Sull’onda del successo newyorchese, piovono altri successi a livello mondiale e nasce la compagnia del Teatro Patologico. Oggi è una compagnia di fama internazionale, si esibisce ovunque, è studiata, elogiata, premiata. Ha una sua sede stabile sulla via Cassia, al numero 472.
Domenico Iannacone ha dedicato una puntata del suo Che ci faccio qui al Teatro Patologico, e un intero documentario al loro allestimento de L’Odissea.
Andrea Delogu nella postfazione definisce necessaria la lettura di questo libro, così come Andrée Ruth Shammah nella prefazione riconosce che andrebbe letto, soprattutto dai giovani. E hanno ragione. Questo libro racconta l’esperienza straordinaria di un uomo che fin da giovanissimo ha lavorato alla creazione di una meraviglia, con la sua tenacia e il suo inesauribile impulso a intrecciare il teatro con la malattia mentale.
Tuttavia c’è qualcos’altro che non racconta direttamente: la costante battaglia per i fondi, necessari a realizzare l’opera del Teatro Patologico. Se il coinvolgimento delle istituzioni fosse importante, se venissero elargite risorse sufficienti, questo metodo di lavoro potrebbe vivere più facilmente e arrivare ovunque. Potrebbero magari nascere sue strutture in tutta Italia.
Così come in altri ambiti, c’è sempre un humus che fermenta al di fuori della politica istituzionale, che vive e sopravvive al di fuori del servizio pubblico, grazie a persone straordinarie, predicatori di umanità che fanno della loro vita una missione. Ma opere come quella del Teatro Patologico dovrebbero avere pari dignità di un servizio pubblico.
Pensando alla legge Basaglia, potremmo dire che la chiusura dei manicomi ha coinciso in parte con un abbandono. Sono le regioni a farsi carico della salute mentale delle persone, attraverso i Dipartimenti di salute mentale, che però sono costantemente in sofferenza: il problema maggiore è la carenza di personale. I fondi non bastano mai. Maggiori risorse porterebbero a un maggiore benessere, sia del paziente in sé sia di chi gli sta accanto.
Articolo a cura di Sara Concato
Dario D’Ambrosi
Tutti non ci sono
Le Commari Edizioni
pp. 126, 15 euro