Srebrenica, l’orrore 28 anni dopo
11 luglio 1995, Srebrenica, Bosnia: una ferita ancora aperta, nel cuore della dignità umana.
11 luglio 2023: ventottesimo anniversario del massacro di Srebrenica, a ragion veduta una delle pagine più buie della storia contemporanea – dal secondo Dopoguerra, fino ai giorni nostri.
Cittadina situata nell’est della Bosnia-Erzegovina, negli anni oscuri delle guerre balcaniche Srebrenica venne dichiarata dall’ONU “zona di sicurezza”: con la Risoluzione numero 819, infatti, le Nazioni Unite chiedevano di cessare ogni ostilità in quel territorio al confine con la Serbia, impegnandosi a proteggerlo da eventuali aggressioni.
Tale Risoluzione venne violata il 9 luglio del 1995, quando le truppe serbo-bosniache del generale Ratko Mladić fecero irruzione nella città situata al confine con la Serbia e, sotto lo sguardo inerme di un contingente di caschi blu olandesi, due giorni dopo, quando presero il controllo totale di Srebrenica, sterminarono circa 8.000 individui – cittadini bosniaci di etnia musulmana.
Ciascuno dei cruenti episodi delle guerre balcaniche fu spaventoso a tal punto che le Nazioni Unite non esitarono ad esprimere la propria condanna: con la Risoluzione 827, il Consiglio di Sicurezza si espresse in favore dell’istituzione di un Tribunale Penale Internazionale ad hoc – l’International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia (ICTY), “antenato” dell’odierna Corte Penale Internazionale (istituita presso L’Aia, nel 2002) che venne chiamato a giudicare i crimini verificatisi durante le guerre balcaniche tra il 1991 e il 1995 (e successivamente in Kosovo e in Macedonia, tra il 1998 e il 2001).
Il generale Ratko Mladić, l’allora presidente serbo-bosniaco Radovan Karadžić e il comandante paramilitare serbo Željko “Arkan” Ražnatović vennero accusati dall’ICTY per crimini contro la popolazione civile bosniaca – Arkan venne assassinato nel gennaio del 2000, Karadžić fu arrestato il 21 luglio del 2008, Mladić il 26 maggio del 2011: entrambi sono stati condannati all’ergastolo.
Si ritenne che questi agissero per conto delle autorità di Belgrado, benché non vi fossero prove esplicite in grado di imputare l’allora presidente serbo Slobodan Milošević. In alcuni quaderni di cui l’ICTY è entrata in possesso, Mladić non esitava ad annotare il suo odio verso l’etnia musulmana: benché le donne e i bambini vennero risparmiati, il Tribunale Penale Internazionale non esitò a definire il massacro di Srebrenica come genocidio – in quanto palese manifestazione dell’intenzione di distruggere in tutto o in parte un gruppo etnico.
Quasi trent’anni dopo il manifesto orrore di Srebrenica, malgrado la sentenza pronunciata da un Tribunale Penale Internazionale costituito ad hoc quale diretta espressione delle Nazioni Unite, pare che oggi ci si debba dividere ancora sulla caratterizzazione o meno di tale genocidio – di questo si è trattato, in fondo. Contro ogni evidenza, infatti, la Russia pose il proprio veto in seno al Consiglio di Sicurezza ONU, nella votazione sulla Risoluzione commemorativa del massacro – benché acclarato dall’ICTY, il termine genocidio sarebbe ritenuto offensivo e controverso dalle autorità serbe.
Un particolare controverso, in effetti, è emerso ormai 8 anni fa: l’Observer pubblicò uno sconvolgente approfondimento sul genocidio di Srebrenica, in cui si dimostrerebbero le responsabilità dell’ONU – e più precisamente dei Paesi promotori degli accordi di Daytona. Secondo l’ex corrispondente di Le Monde Florence Hartman, l’ONU sarebbe stata a conoscenza della cosiddetta “Direttiva 7” dell’esercito serbo-bosniaco, che implicava la “permanente rimozione” dei bosgnacchi presso Sbrebenica, la conquista della quale doveva rientrare nel piano di pace presentato a Daytona. In altre parole Slobodan Milošević avrebbe accettato l’accordo solo nel caso in cui le cosiddette aree di sicurezza venissero annesse alla “sua” Serbia – ciò motiverebbe anche l’impasse dei caschi blu olandesi.
Quale che sia la verità, quale la denominazione formale scelta per la ventesima commemorazione, Srebrenica rimane una ferita aperta nel cuore della Bosnia – una terribile cicatrice lungi dall’essere rimarginata. Vi persero la vita almeno 8.372 esseri umani e non tutti vennero identificati. La cittadina bosniaca i suoi caduti li ricorda così: scavando nella memoria, nelle fosse comuni; continuando a cercare, continuando a seppellire – domani verranno seppelliti 136 corpi esanimi rinvenuti nel 2014.
Il New York Times riportò, nel 2015, alcune dichiarazioni di Munira Subasic, presidente dell’associazione “Madri di Srebrenica”: “Molte madri stanno ancora cercando i resti dei propri figli. Adesso, questo è il nostro problema, la nostra missione più grande. La nostra vita.” – la stessa Subasic ha perso il figlio e il marito, nei giorni terribili di quel maledetto 1995.
Hajra Catic era una di quelle madri ancora alla ricerca del proprio figlio – Nino, sparito all’età di 26 anni nel tentativo di lasciare la sua città. In una toccante intervista rilasciata al Guardian, sempre nel 2015, Hajra non fece mistero di attendere ancora quella telefonata: “Vivo, per quella telefonata. Ogni anno spero possa essere l’anno giusto, quello in cui anche mio figlio possa essere seppellito” – Hajra comprende benissimo cosa possa significare, ne ha già ricevuta una nel 2005, quando vennero trovati i resti di suo marito – “Quando la telefonata arriva, la tua memoria ritorna indietro al 1995. So che potrà sembrare una cosa terribile, ma spero che Nino venga ritrovato in una fossa comune. Almeno saprei dove si trovava, in tutti questi anni. Ogni notte mi sveglio pensando a lui. Per noi non si tratta della storia. Per noi è come se tutto fosse accaduto ieri”. Hajra Catic, anche lei tra le presidenti dell’Associazione “Donne di Srebrenica“, è morta due anni fa, senza aver mai trovato i resti del figlio Nino.
Articolo a cura di Domenico Spampinato
Immagine di copertina via instagram.com/bosniahistory