Uscire dall’oblio: l’opera poliedrica di Fabrizia Ramondino

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La luce finora puntata su un canone letterario prettamente maschile si sta spostando al di fuori di questa genealogia apparentemente univoca e inizia a illuminare altri nomi, altre storie, altre genealogie. Silvia Scognamiglio punta un faro su una scrittrice tanto grande quanto dimenticata.

Soffermiamoci per un attimo sulla copertina del libro. Sotto al nome dell’autrice appare quello del collettivo di cui fa parte: Mis(S)Conosciute – Scrittrici tra parentesi. Si tratta innanzitutto di un podcast, nato nel 2019 dall’unione di tre donne: Giulia Morelli, Maria Lucia Schito e Silvia Scognamiglio. Come da definizione, “è un podcast che libera dalle parentesi le storie di scrittrici lette – ma non troppo – degli ultimi 60 anni”. Oggi Mis(S)conosciute è anche una APS, un blog, e una fucina di corsi di formazione e workshop. Che sia un collettivo di donne a restituirci queste opere cadute nell’oblio è ancor più significativo: la pluralità di voci che dovrebbe di diritto popolare ogni antologia, ogni storia della letteratura è rivendicata da una collettività di donne. La citazione da Christa Wolf posta in esergo sembra allora assumere un senso ulteriore: “Ricordarsi è nuotare contro corrente, come lo scrivere – contro la corrente apparentemente naturale dell’oblio”.
Se un canone letterario ha il compito di raccontare e rappresentare una certa cultura, non può essere parziale, non può lasciare fuori una fetta enorme di voci e racconti.

Le donne non vanno considerate come una rarità del panorama letterario, ma come parte integrante di esso.
In questo senso, il libro su Fabrizia Ramondino, pubblicato quest’anno da Liberaria, rientra appieno negli intenti dichiarati da Mis(S)conosciute. Non solo. L’esile penna: Fabrizia Ramondino. Itinerari di vita e letteratura ai confini tra realtà e immaginazione, ha la prefazione di Valeria Palumbo, una fra le voci più impegnate nel recupero delle scrittrici dimenticate. “Ci serve la loro versione della Storia”, dice con fermezza Palumbo. “È la versione di chi, avendo speso meno tempo a comandare, pur avendone speso troppo a subire, ne ha impiegato molto a osservare” (Prefazione, p. X).

Fabrizia Ramondino è stata una scrittrice importantissima del Novecento, apprezzata dalla critica e dal pubblico. Althénopis, il suo primo romanzo, è stato finalista al Premio Strega nell’anno in cui trionfò Il nome della rosa di Umberto Eco. Eppure, questo non l’ha salvata dall’oblio. Fino a oggi, almeno. Fazi ad esempio ha da poco ripubblicato proprio Althénopis.

La vita di Fabrizia Ramondino è movimentata sin dall’inizio. Figlia di un padre diplomatico e di una madre aristocratica, nasce nel 1936 a Napoli ma cresce praticamente sull’isola di Maiorca, dove la famiglia si trasferisce per un incarico del padre. Punto di riferimento fondamentale di questo periodo è la sua balia, Dida, figura protettiva, che le insegna la sua lingua e incarna ai suoi occhi le classi sociali subalterne, i dominati dai padroni, a cui tanto si dedicherà in futuro.

L’educazione di Ramondino è cosmopolita, per via dei numerosi spostamenti, e la lettura della grande letteratura europea dell’800 rappresenta un cardine importante nella sua formazione. Ricordiamo insieme a Silvia Scognamiglio che la lettura e la traduzione all’epoca erano attività tipicamente femminili, quindi le grandi scrittrici del ‘900 spesso si formano leggendo i capolavori della letteratura internazionale. È una riflessione fondamentale, questa. La loro scrittura sarà influenzata da questi modi e stili, risultando poi difficilmente incasellabile in patria. Avevamo già detto qualcosa di simile parlando di Grazia Deledda, citando le parole di Michela Murgia. Alla luce di ciò, appare ancora più necessario che queste voci entrino a pieno titolo nei manuali e nelle antologie.
Poliglotta, viaggiatrice, Fabrizia Ramondino non si ferma mai. Dopo la maturità classica, si sposta in Germania, paese in cui inizia a scrivere. Taccuino tedesco è il resoconto degli anni vissuti lì.
Italiano, spagnolo, maiorchino, francese, tedesco: tante sono le lingue che la abitano. Più le lingue abitano un corpo, più è forte la consapevolezza che l’identità non è monolitica. Riprendendo il concetto elaborato da Rosi Braidotti, Silvia Scognamiglio parla di Ramondino come “soggetto nomade”, mentre riprendendo Elena Ferrante, ne parla come scrittrice “smarginata” (capitolo “Soggetto nomade”). La consapevolezza è sempre dolorosa.

Scognamiglio suggerisce l’idea di un “sentire poetico” (p. 83) al fondo del suo motore creativo. Un sentire poetico che macina sotto una vita di spostamenti, di crolli, di spaesamenti reali e metaforici, una vita in cui la scrittura si delinea come corda che àncora alle cose, come boa di salvataggio. E la sua scrittura non può che essere sfaccettata, caleidoscopica. Ramondino prende il via dalla sua esperienza di vita per arrivare a una dimensione sovra-individuale. Scognamiglio parla infatti di sapiente mescolanza di ricordo e immaginazione (p. 38) e di “stile caleidoscopico” (p. 42) dei suoi romanzi. E ancora: in una meravigliosa definizione dell’opera di Ramondino, Silvia Scognamiglio parla di “autoritratto letterario” che fuoriesce dalle categorie classiche irradiandosi “attraverso quelle crepe che, nel corso dei secoli, si sono aperte nel monolite del canone, e che fanno intravedere il flusso ininterrotto dell’altra letteratura che scorre al di sotto della tradizione” (p. 131).

Di fatto – sebbene la scrittura narrativa esistesse già, ma in forma privata – il primo romanzo di Fabrizia Ramondino esce nel 1981. Negli anni ’60 è a Napoli. Silvia Scognamiglio ci racconta del suo intenso impegno sociale: l’attività con l’Associazione Risveglio Napoli, il lavoro presso l’Associazione Italiana per l’Educazione Demografica, le analisi sociologiche del Centro di Coordinamento Campano per cui scrive l’articolo Contro l’uso capitalistico del colera e la bozza di un’inchiesta pubblicata poi in forma di libro, Napoli: i disoccupati organizzati (dall’edizione successiva Ci dicevano analfabeti. Il movimento dei disoccupati natoletani degli anni ’70). “È la voce di quell’universo simbolico rappresentato dalla balia” (p. 122), scrive Silvia Scognamiglio.
E ci viene da pensare a quell’essere oppresso e muto che era l’iguana di Anna Maria Ortese. Non a caso, con Anna Maria Ortese Fabrizia Ramondino avrà un legame letterario importante, ed entrambe ebbero un legame importante con la città di Napoli.

Althénopis vede la luce nel 1981. L’anno precedente c’è stato il terremoto dell’Irpinia, scenario che riapre le peregrinazioni della scrittrice. L’unica cosa che non crolla mai è la scrittura. Nemmeno quando, a distanza di anni dall’esperienza napoletana dell’impegno sociale e politico, l’entusiasmo si spegne in un mondo ormai ormai fagocitato dall’individualismo capitalista.
La creatività di Fabrizia Ramondino sopravvive e prosegue imboccando nuove forme, come la scrittura teatrale e cinematografica. Nel periodo più buio della sua depressione, scrivere la salva. E la scrittura segue le onde della vita interiore: L’isola riflessa, come ci dice Silvia Scognamiglio, sarà il “racconto di giorni che si alternano tra una allucinata chiarezza, vicino alla visione, sulle cose e una dolorosa confusione sul senso dell’esistere” (p. 177).

L’esile penna è un’immersione in tutto questo. Un’esplorazione attenta all’interno di questa cattedrale sommersa che è l’opera di Fabrizia Ramondino, che pian piano riemerge dall’abisso in cui era sprofondata. Con grande cura Silvia Scognamiglio accende una luce e percorre le pagine e la vita della scrittrice, restituendone un ritratto a tutto tondo.

Fuori dal canone, c’è tutto un mare di nomi da (ri)scoprire, rappresentato efficacemente da Mis(S)conosciute con l’iceberg delle scrittrici italiane del Novecento.

L’esile penna: Fabrizia Ramondino. Itinerari di vita e letteratura ai confini tra realtà e immaginazione
di Silvia Scognamiglio
LiberAria, 2023
pp. 218, euro 13,50

Recensione a cura di Sara Concato

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