Argentina: l’insostenibile estrazione del litio
L’estrazione del litio mette a rischio la sussistenza dei nativi, che da mesi si battono contro la riforma che consegna le loro terre alle multinazionali.
Il litio è la riserva del futuro. Eppure è oggi il momento critico in cui le popolazioni indigene dell’Argentina devono fare i conti con la disidratazione del suolo e l’inquinamento delle acque causate dall’estrazione di questo minerale. Tra le province di Salta e Jujuy, nel nord del Paese, si concentra il grosso della miniera di litio per cui l’Argentina è quarto produttore al mondo dopo Australia, Cile e Cina.
Tablet, smartphone, batterie e soprattutto auto elettriche: la loro sopravvivenza è strettamente legata all’estrazione del litio. I giacimenti di questo minerale, nei prossimi anni muoveranno gli interessi geopolitici. E l’Argentina si ritrova 600 chilometri quadrati di stagni di sale bianco contenente diverse minerali tra cui, appunto, il litio.
L’estrazione del litio, insomma, si configura come un’attività cruciale per i prossimi decenni. E assume un’importanza maggiore in un Paese che da tempo vive una situazione economica al limite. Nel 2023, infatti, il PIL dell’Argentina si è contratto del 3,3%, l’inflazione è prevista per il 145% e la disoccupazione ha superato il 6%. La disponibilità mineraria, dunque, è inevitabilmente percepita come motore di ripresa.
Hoy se cumplen tres meses de la reforma de la Constitución jujeña impuesta con represión por Gerardo Morales. En Jujuy y en Buenos Aires, la movilización de los pueblos originarios persiste, en defensa de los bienes comunes ante el extractivismo.✊🏽
➡️https://t.co/bcemseld71 pic.twitter.com/ASxmK4PM9s— Agencia Tierra Viva (@Tierra_Viva_) September 20, 2023
Ma il costo di questa speranza lo stanno pagando le popolazioni indigene, oltre 400 gruppi di nativi che vivono sul territorio da prima dell’arrivo dei Conquistadores spagnoli. Non costituendo nazione o stato federato, la loro posizione è fragile in temi di proprietà e attività in loco. Fragile ma non completamente inesistente: secondo la Convenzione dei Popoli Indigeni e tribali del 1989 dell’Organizzazione Internazionale per il Lavoro (ILO), infatti, si prevede che il Governo debba consultare i nativi prima di intraprendere o permettere qualsiasi programma di esplorazione o sfruttamento di risorse appartenenti alle loro terre – ovvero delle terre su cui risiedono.
Invece, lo scorso giugno, il governatore di Jujuy, Gerardo Morales ha promosso e ottenuto una riforma costituzionale che ha riconfigurato la gestione della proprietà delle terre appartenenti ai popoli originari. L’obiettivo, chiaramente, è quello di spianare la strada alle multinazionali per agevolare un modello di produzione estrattivista. La stessa riforma, inoltre, ha criminalizzato ogni forma di protesta e mobilitazione pubblica per annullare il malcontento della classe docente (che protestava per i bassi salari) e dei nativi, che già da quest’inverno hanno fatto sentire la loro voce per salvaguardare la propria esistenza sul territorio.
Una riforma giudicata incostituzionale poiché contravviene a specifici articoli e passaggi della Convenzione: gli indigeni, infatti, non sono stati interpellati né coinvolti in alcun modo dal piano di produzione. Supportati dagli attivisti pro-ambiente, da quest’estate si impegnano in manifestazioni, blocchi e presidi stradali nelle diverse città della provincia o nei siti minerari. Manifestazioni che, spesso, vengono soppresse con violenza dalle forze dell’ordine.
Lo scorso 17 luglio i popoli di Jujuy si sono organizzati nel “Malón de la Paz”: una marcia di oltre 1.700 chilometri per arrivare a Buenos Aires per chiedere l’abrogazione della riforma della Costituzione locale alla Corte Suprema di Giustizia, l’archiviazione delle imputazioni contro le persone che hanno partecipato alle diverse mobilitazioni e le dimissioni di Morales e del capo della polizia, Horacio Herbas Mejía, per abuso di forza nelle operazioni di repressione.
Un Malón de la Paz para interpelar al poder y al falso progreso
Como en 1946, pueblos originarios realizaron un nuevo #MalónDeLaPaz a #BuenosAires contra la reforma de #Jujuy y la defensa de sus territorios ante el #extractivismo. https://t.co/IIgFfsapB0 Por @Tierra_Viva_ pic.twitter.com/JW3eWCcFHd
— ANRed #25Años (@Red__Accion) August 8, 2023
La posizione del Governo locale, nelle parole della portavoce della Direttrice delle attività Lucesoli, è la seguente: “Le aziende che si occupano dell’estrazione del litio stanno facendo grandi sforzi per ottimizzare l’uso dell’acqua e ridurre l’utilizzo di combustibili fossili. E tutti gli impianti di estrazione saranno alimentati da energia solare”.
Una rassicurazione che non convince chi, invece, sul territorio vive e vede dipendere la propria sussistenza dal benessere dello stesso. Per Nati Machaca, una delle portavoce delle comunità, Il timore è che a lungo andare siano costretti a lasciare le terre di appartenenza per non poter più vivere di agricoltura e pastorizia come fanno attualmente, perché “La nostra terra si sta prosciugando e la nostra acqua è inquinata”.
Estrarre litio significa prima differenziarlo: si trivella il suolo e poi si inietta acqua sottoterra, creando una salamoia che viene spinta in superficie e lasciata evaporare in enormi stagni, fino ad arrivare a una seconda miscela da cui si potrà ricavare il minerale.
Il processo non è breve: da quando si inietta l’acqua all’estrazione del litio possono passare anche 2 anni. E per una tonnellata di litio servono 200 milioni di litri d’acqua. Al momento, tre cantieri sono già avviati, altri 6 sono in fase di progettazione, 8 in studio di fattibilità e 15 di esplorazione.
Il prossimo 22 ottobre in Argentina si andrà al voto per le elezioni presidenziali: quale sarà il risultato, i progetti pro-litio non saranno messi in discussione.
Articolo a cura di Sara Gullace
Immagine di copertina via ojoalclima.com