Autoritratto newyorkese: la recensione del nuovo romanzo di Maurizio Fiorino
Il nuovo romanzo di Maurizio Fiorino ha il sapore di quelle storie che non rifiutano né disconoscono la durezza della realtà, vi affondano anzi, la osservano da vicino e dritto negli occhi, per poi riemergere.
Fotografia e scrittura. Due modi di raccontare. E raccontarsi.
Mi sono spesso trovata a riflettere su un certo grado di convergenza tra tendenze ormai in atto da anni, i selfie da una parte, l’autofiction dall’altra. Penso al fenomeno generalizzato, ai social pieni di scatti ravvicinati e al desiderio di tanti di scrivere della propria vita.
Questione di narcisismo probabilmente, o forse ricerca e affermazione di una propria identità, la dichiarazione più o meno urlata dell’ io esisto, io sono qui.
Poi c’è l’arte e la letteratura, dove la fotografia e la scrittura elevano e trasformano. Anche quando l’attenzione è verso altro da sé, spesso accade che venga rivelato molto di chi è dietro l’obiettivo o di chi traccia segni sul foglio. Il soggetto che si sceglie di ritrarre, il modo in cui si sceglie di inquadrarlo, i giochi di luci e ombra, quello che si include e quello che si lascia fuori, tutto rivela qualcosa dell’autore.
In Autoritratto Newyorkese, ultima fatica di Maurizio Fiorino, troviamo entrambi. Lo stesso Fiorino è sia scrittore sia fotografo e in questo romanzo la voce narrante è un giovane fotografo di 23 anni che ha iniziato proprio ritraendo se stesso in autoscatti: siamo più o meno nel 2008 e i selfie come li conosciamo adesso devono ancora prendere piede.
La scrittura è pulita, precisa, quasi uno scatto in bianco e nero dalle linee nitide.
La voce narrante è senza nome, come il fotografo che non si vede nell’immagine scattata.
A fuoco c’è la storia con Lou, l’altro come immagine di sé: seppur diversi per background, i due sono accomunati da una tendenza all’autodistruzione che innesca un cortocircuito.
Il romanzo si apre con una scena di straniamento fortissimo, quel sentimento di non appartenenza di chi si trova straniero in una grande città. E di solitudine.
Segue il loro incontro, la loro convivenza e successiva relazione, lavori precari, paghe misere, piccoli furti, marchette, tradimenti, droghe, notti a dormire in posti di fortuna, violenza, sesso.
Il resto dei personaggi sono più che altro comparse, passano veloci, come anche le case, tutto sembra essere occasionale, una realtà che si incontra un momento, poi sfuma e si disfa.
C’è la grande città, un po’ sfocata dietro il soggetto in primo piano, una città affollata di persone che stentano a incontrarsi davvero, o deserta in pomeriggi afosi.
E poi c’è l’arte che salva.
Bellissimo il richiamo al frammento di una statua in mostra a New York, solo metà volto di un giovane, la bellezza che il tempo non ci ha permesso di ammirare nella sua interezza, simbolo però anche di quel senso di irraggiungibilità della perfezione, del sentimento che pervade l’artista, di tensione e frustrazione, che tiene insieme e insieme spezza l’artista che riesce a vedere la bellezza, la percepisce, la sfiora ma sente di non possederla.
Nel corso delle narrazione e parimenti nella relazione con Lou, l’identità del narratore si definisce, prima per similitudine, poi per scarto. La voce narrante vede e rifiuta la parabola discendente del suo doppio (tema che viene richiamato spesso, a cominciare dal riferimento alle gemelle di Diane Arbus), la percorre per poi infine rifiutarla.
Dopo il divertente Ora che sono nato e il durissimo Macello, il nuovo romanzo di Fiorino ha il sapore di quelle storie che non rifiutano né disconoscono la durezza della realtà, vi affondano anzi, la osservano da vicino e dritto negli occhi, per poi riemergere. Assistiamo così infine ad una sorta di rinascita in cui, forse, la voce narrante può guardarsi allo specchio e riconoscersi.
Articolo a cura di @vivileggiama
Autoritratto Newyorkese
Maurizio Fiorino
Edizioni E/O, 2023
pp. 224, 18 euro