“Petites”, la forza di essere fragili
Esce oggi nelle sale italiane “Petites, la vita che vorrei… per te”, opera prima della regista francese Julie Lerat-Gersant. Un film che ha avuto un bel percorso prima della sua uscita – presentato a vari festival internazionali, tra cui Giffoni e festival di Locarno – ed ora ha raggiunto la maturità necessaria per il suo debutto nelle sale.
In Petites maturità è una parola grande. Chi può dire quando si è maturi al punto giusto per affrontare le sfide della vita?
Ma andiamo per ordine
Petites è una storia di formazione. Camille (interpretata da Phili Groyne) è una sedicenne di provincia che si trova ad affrontare una questione enorme. Incinta viene mandata dal giudice, poiché minorenne, in un centro di accoglienza per giovani gestanti. Separata dalla madre, che la ama ma che ha problemi a gestire la sua stessa vita, Camille si ritrova in un mondo nuovo, popolato da giovani gestanti e severe assistenti sociali. Decisa più che mai a non tenere il bambino che nascerà, il film si basa sulla presa di coscienza da parte di Camille su cosa voglia dire avere la responsabilità del futuro di una persona.
Per quanto bigotta possa essere la sinossi, il film sin dall’inizio trasmette verità. Per quanto ci è dato conoscere. Chi veramente sa, esclusi gli addetti ai lavori e chi ha dovuto farci i conti realmente, quali sono le dinamiche che si sviluppano all’interno di una casa-famiglia?
Di primo acchito, noi prevenuti, immaginiamo disagio sociale. Scelte sbagliate della vita. Storie che sono molto lontane da noi. E invece siamo noi a sbagliarci. Dai primissimi minuti incontriamo personaggi che non sono così lontani da chiunque incontriamo per strada. Potremmo essere stati noi, i nostri genitori o i nostri figli. La domanda essenziale che motiva il film non è com’è successo o perché è successo ma: cosa succede poi?
E invece che fare un romanzo personale e interiore la regista ci spiattella la vita quotidiana all’interno di un piccolo mondo che ha regole diverse dalle nostre. Ma soprattutto ci presenta dei personaggi che sono reali per quanto facciano scelte assurde.
Ed è proprio attraverso il confronto con gli altri che Camille cresce. Grazie all’esempio, positivo e negativo che sia, Camille è in grado di prendere una decisione. Tenere il bambino o non tenerlo? Soprattutto capisce che non è sola.
L’impegno sociale
Difatti è questo il messaggio centrale. Quello della maternità adolescenziale è un tema che abbiamo imparato a conoscere dagli anni Ottanta e Novanta. Poi più nulla. Tutto passa in sottofondo. Dallo sdoganamento del sesso e dalle possibili conseguenze. Quello che si prospettava, per chi era giovane in quegli anni, almeno questa era la propaganda sociale era un futuro tetro. Incerto per tanti versi, difficile. Sicuramente rappresentava la fine della propria giovinezza. Questo almeno è quello che pensa la madre di Camille, che per altro non fa nient’altro che cercare di recuperare la leggerezza perduta.
Ma è veramente così? Petites ci fa capire che avere responsabilità non vuol dire rinunciare alla propria vita o alla propria libertà. Ci fa capire che nonostante il futuro ci appaia irrisolvibile e perduto, lo si affronta. Anche che gli ostacoli che ci sipongono davanti, quelli, che ciu appaiono insormontabili, possono essere la chiave di svolta della nostra esistenza. Ci fanno capire chi siamo.
Ma soprattutto Petites ci fa capire che abbiamo il diritto di essere fragili.
Articolo a cura di Andrea Pezzullo
Immagine di copertina gentilmente concessa dall’ufficio stampa Manzo Piccirillo