Più libri, meno lettori?
A margine della 21ª edizione della fiera Più Libri Più Liberi alcune riflessioni più o meno amare oltre l’entusiasmo della festa.
Domenica 10 dicembre si è chiusa la 21ª edizione di Più Libri Più Liberi, fiera nazionale della piccola e media editoria che, come ogni anno, cattura l’attenzione di chiunque graviti attorno al mondo dei libri. Con buona pace dei librai indipendenti, che da anni lamentano il fatto che la fiera si tiene nel mese per loro più importante in termini di vendite, creando così una competizione a loro svantaggio. Pare però che dal 2025 la fiera cambierà data: non si svolgerà più nel mese natalizio, benché ancora non si sappia in quale punto del calendario cadrà.
Sempre più frequentata, sempre più affollata, Più Libri Più Liberi nasceva originariamente come una sorta di “controfiera”, per opporre al monopolio dei grandi gruppi la pluralità e la differenza dell’editoria media e piccola.
Nella realtà dei fatti, però, a questa fiera partecipano case editrici che sono ormai tutt’altro che piccole, accanto ad altre realmente tali o di medie dimensioni. Non afferire a un gruppo editoriale non significa automaticamente essere piccoli. Essere veramente indipendenti peraltro non paga. Tant’è che le case editrici indipendenti sono distribuite principalmente da Messagerie, holding editoriale leader del settore. Autodistribuirsi sarebbe impensabile.
La fiera di fatto è onerosa: gli stand costano molto (forse troppo) e ci sono una serie di altre spese inevitabili che la partecipazione alla fiera impone. Gli editori indipendenti grandi hanno capacità economiche maggiori e, quindi, meno difficoltà. Questo emerge anche solo passeggiando nella “vasca” del mercatone. Alcuni espositori hanno stand più estesi di altri: hanno postazioni migliori, sia in termini di ampiezza dello spazio sia in termini di collocamento nelle corsie. La fiera riproduce i rapporti di forza che ci sono fuori, nel mercato in senso lato. Anche negli spazi degli eventi entrano le logiche del fuori-fiera. È un’illusione pensare di avere uguale peso e di ricevere pari attenzione.
L’affollamento dello spazio non gioca a favore di quello che doveva essere uno dei principi della fiera: l’incontro fra lettori ed editori. Le persone scorrono lungo i corridoi, si aggrumano, sciamano in un brusio continuo ed è difficile intessere conversazioni e intrecciare riflessioni.
È un po’ la logica del centro commerciale: concentrato in un posto, dove il cliente trova tutto a portata di mano, scorrendo davanti agli stand come davanti alle vetrine dei negozi. E alcuni negozi sono più grandi e più visibili di altri.
Iniziamo a capire che il libro non è solo arte, non è solo cultura. Il libro è un prodotto, è una merce in vendita. “I libri sono come i piatti, servono allo stesso modo”, dice Chiara Valerio, direttrice della fiera, in uno dei video diffusi su Instagram. Affermazione totalmente condivisibile nella misura in cui sottolinea la necessità del libro nelle nostre vite quotidiane. Ma il rischio, nel contesto del mercatone editoriale, è che si riduca il libro a mero oggetto – come peraltro accade già su Instagram, dove gli influencer lo esibiscono come puro oggetto estetico. Del resto, nello stesso video, la direttrice osserva: “le persone sono ancora qui a comprare libri, che poi leggeranno o non leggeranno, perché la cosa importante è che i libri si comprino”.
E l’aspetto commerciale sembra aver preso il sopravvento sulla bibliodiversità. I tavoli traboccano di libri. Per non affogare e scomparire tra gli scaffali di librerie e fiere, gli editori producono libri a oltranza. Più libri, più visibili. D’altra parte il meccanismo della sovrapproduzione è l’anima del sistema capitalistico, e ciò non fa sconti neanche alla produzione di libri. L’editore è (anche) imprenditore. Forse lo è in primis. L’editoria, insomma, non fa eccezione. Ma cosa si produce esattamente?
Alcuni (piccoli) editori hanno iniziato a porsi la domanda e a mettere un po’ in discussione le logiche di questa sovrapproduzione, proponendo lo slogan “meno libri più attenzione”, parola d’ordine della loro controfiera che da qualche anno organizzano, nello stesso periodo della fiera. Che l’abbondanza non sia (sempre o necessariamente) sinonimo di scelta o qualità, è cosa nota. Nel caso dei libri forse è più difficile rendersene conto. Eppure, già il taglio del sondaggio sulla lettura proposto da AIE – presentato proprio a Più Libri Più Liberi – pone questioni su cui prima o poi bisognerà seriamente riflettere. Il quesito posto dall’Associazione Italiana Editori aumentava il tipo di letture valide per il sondaggio in modo tale da accogliere la più ampia accezione di lettura: “Pensando agli ultimi 12 mesi le è capitato di leggere, anche solo in parte, un libro di qualsiasi genere, non solo di narrativa (come un romanzo, un giallo, un fumetto, un fantasy…) ma anche un saggio, un manuale, una guida di viaggio o di cucina, ecc. su carta o in formato digitale come un e-book, o di ascoltare un audiolibro?”.
Forse bisognerebbe chiedersi di più cosa si legge, e non (solo) quanto si legge.
Discorso che si può estendere ad altre forme d’arte, come il cinema ad esempio.
Proprio in questi giorni la regista Emma Dante affida ai social il suo sfogo:
“Il film non può resistere in sala perché non ha entusiasmato? Ma un tempo il cinema d’essai come il teatro di ricerca anche con le sale vuote si difendeva con le unghie e con i denti, facendosene persino un vanto. C’era la convinzione che un certo tipo di film o un certo genere di spettacolo dovevano essere protetti a tutti i costi anche solo per una o due persone che ne avessero bisogno. Ora, o fai il tutto esaurito in pochissimo tempo o sei morto.”
Ampliare l’estensione dei prodotti considerati migliora le statistiche: la percentuale di lettori aumenta. Ma la statistica così elaborata cosa ci dice? Ci informa sul consumo critico dei prodotti culturali? Ci dice qualcosa sulle scelte del lettore/fruitore? Leggere è un’azione sempre uguale, che si tratti di poesia, di ricette di cucina o guide di viaggi? Ci interessa solo che aumentino i numeri oppure vogliamo addentrarci in un’analisi dei prodotti culturali consumati?
Nel contesto della fiera difficilmente si pongono tali questioni. Ancor meno si aprono dibattiti su un altro aspetto spinoso dell’editoria, ossia la realtà dei suoi lavoratori. Nel mercatone sotto la nuvola, le realtà editoriali sono tutte virtuose? L’essere indipendenti è garanzia di buone pratiche? Contratti iniqui, lavoro sottopagato, sfruttamento: dicevamo prima, gli editori sono (anche) imprenditori, perciò anche sul pianeta editoriale esistono queste faccende. È difficile ammettere che nel mondo dei libri, quel mondo che adoriamo, ci sia questo residuo fastidioso, che si vorrebbe tenere fuori dalla nuvola rossa.
Articolo a cura di Sara Concato