Dietro i fronti: terapia e resistenza all’oppressione
In una raccolta di articoli, Samah Jabr apre uno spaccato sugli effetti dell’occupazione sulla salute mentale del popolo palestinese, mostrandoci quanto il benessere mentale sia minato da un contesto politico-sociale opprimente, violento e disumanizzante.
Nel 2019 Sensibili alle foglie, nella collana “Indicibili sociali” pubblica Dietro i fronti. Cronache di una psichiatra psicoterapeuta palestinese sotto occupazione, di Samah Jabr, tradotto dall’originale francese che uscì nel 2017 insieme al documentario della Hybrid Pulse, con la regia di Alexandra Dols. Ne esiste anche una versione sottotitolata in italiano.
Samah Jabr, psichiatra e scrittrice, nasce nel 1976 a Gerusalemme Est. Il suo lavoro è una fondamentale riflessione su salute mentale, colonialismo, imperialismo e diritti umani. I testi raccolti all’interno del libro coprono un arco di tempo che va dal 2003 al 2017. L’autrice raccoglie testimonianze della sua attività di psichiatra psicoterapeuta sotto occupazione e riflette sul nesso cruciale fra salute mentale e contesto politico e sociale: il lavoro della psichiatria e della psicoterapia ai suoi occhi può curare solo tenendo in considerazione tale contesto e il valore dei diritti umani, della giustizia sociale e della resistenza all’oppressione come elemento fondamentale per il benessere dell’individuo e della collettività tutta.
A guardar bene, Samah Jabr mostra qualcosa di fondamentale a livello universale, ma che difficilmente i professionisti del settore riconoscono con altrettanta limpidezza, ossia tenere in conto il contesto sociale e politico nel corso del lavoro clinico, svelando – se ancora c’è bisogno di farlo – che il benessere dell’individuo e quello della collettività sono indissolubili. Questo vale tanto per il popolo palestinese, oppresso da una condizione di occupazione umiliante e spersonalizzante, quanto per l’umanità intera. La dedica è cristallina: “alle donne e agli uomini oppressi, e a coloro che scelgono di essere solidali con loro”.
Maria Rita Prette nell’introduzione dice: “Intessere un filo di speranza per i palestinesi non è semplice, intere generazioni si sono scontrate con l’indifferenza, il silenzio, la complicità di tutti, anche la nostra” (p. 6). La pubblicazione di questo libro è (anche) un atto politico, sia da parte dell’autrice sia da parte dei suoi editori. La rottura di un silenzio complice dell’oppressione: ci rendiamo conto oggi ancora di più, alla luce dei fatti attuali, di quanto questo sia importante.
La restituzione della parola, prima di tutto. Come scrive Youssef Seddik nella sua prefazione all’edizione francese, Samah Jabr cura e lotta insieme ai suoi pazienti, “liberando, nell’assumerne la parola, le grida mute e i sospiri trattenuti che bloccano la gola e offuscano lo sguardo” (p. 10). Dire, narrare il trauma del popolo palestinese è un passo fondamentale. Il discorso dell’oppresso deve irrompere sulla scena, occupata dal discorso dell’oppressore. La possibilità di raccontare una storia tacitata, silenziata, ignorata. È il primo passo della terapia, e della liberazione.
Il mestiere di psichiatra ha portato Samah Jabr a indagare le cause profonde del malessere palestinese, cause inscindibili dall’occupazione israeliana: “i nostri strumenti di salute mentale sono forse solo dei palliativi? Dopo averci riflettuto sono giunta alla conclusione che, fin tanto che durerà l’occupazione, è mio dovere promuovere l’indipendenza e la libertà di spirito. E che le strategie di salute mentale che impiego devono andare oltre, fino a raggiungere le cause profonde del nostro dolore” (p. 18).
Il popolo palestinese è da decenni in uno stato di assedio a cui nessuno sfugge e che genera traumi e danni psicologici che intaccano non solo l’individuo, ma l’intera società. La stessa Samah Jabr è in una condizione di identità negata, in quanto palestinese di Gerusalemme, straniera nella sua terra, ritenuta pericolosa e sospetta, costantemente sotto sorveglianza.
La storia è nota e parte dalla Nakba, per passare poi attraverso decenni di occupazione illegale delle terre da parte dello Stato di Israele, fallimentari negoziati di pace e scarso sostegno a livello internazionale.
Fra le storie che incontriamo c’è quella di un giovane pastore di Hebron che, per aver portato le sue pecore a pascolare in terreno confiscato da Israele, viene aggredito brutalmente dai soldati israeliani, aggressione che gli procurerà pesanti disturbi da stress post-traumatico, tanto da renderlo irriconoscibile persino a sua madre.
Il libro racconta storie di questo tenore: aggressioni, incarcerazioni, detenzioni e torture che generano traumi, paranoie, depressione, psicosi e altri danni psichici a lungo termine, rubando letteralmente la vita alle persone. E spesso sono ragazzi, adolescenti, a subire incarcerazioni e detenzioni, come sottolinea l’autrice, che tante volte si trova ad affrontare proprio pazienti giovani, traumatizzati dall’esperienza della prigionia. Persino l’Unicef, ci ricorda Samah Jabr, ha descritto il maltrattamento dei minori palestinesi nei campi di detenzione militari israeliani come “sistematico e istituzionalizzato” (p. 134). È uno stato di guerra cronico e asfissiante in cui interagiscono cicliche operazioni militari e oppressione quotidiana. Il popolo palestinese vive confinato, “ingabbiato” dalle barriere imposte dallo Stato di Israele, nato – appunto – con l’espulsione di 750.000 palestinesi mandati via dalle loro case e dai loro villaggi.
New @UN report: #Palestinian children ‘routinely tortured&used as human shields by Israeli forces’ @HuffingtonPost http://t.co/XCSKyfvqhJ
— UNICEF (@UNICEF) June 25, 2013
“Un tempo io volavo, ma mi avete rotto le ali e rinchiuso in una gabbia”, questo dice un paziente al termine di una crisi maniacale durante la quale era saltato dal muro di separazione israeliano, rompendosi le gambe (p. 79). I palestinesi subiscono vessazioni continue, e non solo attacchi fisici: persino negli ospedali sono messe in atto pratiche discriminatorie da parte del personale israeliano – umiliazioni che generano sentimenti di disagio e vergogna, ma anche impulso alla vendetta.
“Vivere oppressi e sottomessi all’ingiustizia è incompatibile con la salute psicologica. La resistenza non è soltanto un diritto e un dovere, ma anche un rimedio per gli oppressi” (p. 28). Samah Jabr ci racconta anche la resistenza e la resilienza messa in atto dal popolo palestinese, per sopravvivere allo stato di cose e rivendicare una libertà negata. I palestinesi lottano, e non è al terrorismo che si riferisce l’autrice. Si oppongono al furto della loro identità, della loro memoria e della loro terra.
In uno degli articoli Samah Jabr ci parla dell’Intenzione di Israele di rendere l’ebraico unica lingua ufficiale dello Stato. Ebbene, nel 2018 la Knesset ha approvato una legge, convalidata tre anni dopo dalla Corte suprema israeliana, che dichiara Israele Stato della nazione ebraica, patria, quindi, del popolo ebreo, e non dei suoi cittadini arabi e delle altre minoranze.
“Appartiene a ogni ebreo nel mondo ma non ai suoi cittadini arabi”, disse a Il Manifesto Zeev Sternhell, storico israeliano scomparso nel 2020, fra i fondatori del movimento Peace Now.
Tra le misure previste dalla legge, la lingua ebraica resta la sola lingua ufficiale dello Stato, mentra l’arabo diventa lingua con “status speciale”. La cancellazione di una lingua è cancellazione di una cultura, di una memoria, è imposizione di una subalternità.
E questa subalternità è anche interiorizzata.
Israel's High Court just denied a host of petitions challenging the Nation-State Law which claimed it was discriminatory against non-Jews.
Of the 11 presiding justices, George Karra – the only Arab on the court's bench – was the single dissenting voicehttps://t.co/ID98iEFikA— Haaretz.com (@haaretzcom) July 8, 2021
“Recenti ricerche di psicologia e neuroimmagine mostrano che l’essere umano manifesta un’innata reazione di rigetto di fronte alla diseguaglianza e all’ingiustizia” (p. 81). La convivenza costante con l’occupazione mina persino questa naturale refrattarietà all’abuso, perché – come spiega Samah Jabr – può generare apatia. Non solo: come accennavamo prima, l’oppressione può essere interiorizzata e portare a un complesso di inferiorità, che intacca la resistenza alle sue basi, incrinando la coesione di un popolo. Samah Jabr illustra una serie di fattori che contribuiscono a questa interiorizzazione, dai media all’istruzione, promuovendo un atteggiamento passivo di fronte allo stato di cose.
“Nonostante tutto, i palestinesi resistono ed esistono” (p. 104), frase che letta oggi provoca una fitta allo stomaco. Non è solo sopravvivenza: Samah Jabr evoca il concetto palestinese di sumud, che implica sfida alla sopraffazione. “Mentre la resilienza è un concetto orientato a uno stato mentale, sumud esprime al contempo stato mentale e spinta all’azione” (p. 111). Una pratica civile a metà fra resilienza e resistenza. Una forma di disobbedienza, anche. Gli scioperi, i boicottaggi e le proteste di massa che hanno caratterizzato l’Intifada rientrano nel medesimo concetto. Le azioni contro le demolizioni e gli espropri delle terre, anche. È attraverso questo tipo di azioni che la resistenza palestinese si è maggiormente espressa nei settantacinque anni di occupazione.
Il libro di Samah Jabr è anche un atto di accusa nei confronti delle autorità palestinesi per atteggiamenti passivi o perfino collaborazionisti con le autorità israeliane, cosa che alimenta nel popolo palestinese il senso di solitudine e di vulnerabilità. Se gli apparati dirigenti palestinesi oscillano fra violenza e lassismo, il punto focale della liberazione del popolo palestinese si perde inesorabilmente. E restano le persecuzioni, le intimidazioni, la sorveglianza continua, il controllo costante, che incidono pesantemente e permanentemente sulla vita materiale e psichica degli oppressi.
La scrittura limpida e tagliente di Samah Jabr mette a nudo e in chiaro i meccanismi dell’oppressione di un popolo a cui da settantacinque anni vengono negate libertà e autodeterminazione. In queste righe crude e veementi prende forma l’orrore in cui hanno vissuto e vivono i milioni di palestinesi prigionieri di una apartheid senza fine. Alla luce del massacro in atto, queste pagine sembrano profetiche. “L’occupazione è un tentativo di etnocidio e in quanto tale rappresenta un crimine contro il patrimonio dell’umanità” (p. 66).
Dietro i fronti. Cronache di una psichiatra psicoterapeuta palestinese sotto occupazione
Samah Jabr
Traduzione di Alberto Tognola
Adattamento a cura di Alexandra Dohls con la coordinazione di Hernan Mazzeo
Sensibili alle foglie, 2019
pp. 192, 13 euro
Articolo a cura di Sara Concato
Immagine di copertina via newmatilda.com, licenza Creative Commons