Espropriazioni. Terra, acqua, fuoco: esistenze
Una raccolta di racconti che è un percorso e uno spaccato nella vita di personaggi che ci somigliano, che come noi esistono fra confini e soglie, alle prese con regole scritte e non scritte che costantemente privano e (de)limitano.
Cominciava allora a baluginarmi in mente un altro triste aspetto della vita umana – la gravità della condizione di non proprietario in un sistema di proprietari: il lento decadere della vita nello sforzo di piacere o soddisfare i proprietari, anche di giornali, dando sempre una gradevole pittura dei loro sistemi. (Anna Maria Ortese, Corpo celeste, Adelphi, p. 80)
Espropriazione è un termine che può applicarsi alla società in cui viviamo, ma anche al mondo editoriale. La fatica di ottenere uno spazio per sé, un pezzo di terra nel mondo “dei giusti”, perché – come sottolinea Mario Martone nell’introduzione alla raccolta – “Il rapporto tra scrittura e pubblicazione, si sa, è spesso un punto critico, una frattura (pensiamo al caso eclatante di Goliarda Sapienza)” (p. 7). E la citazione in esergo da Anna Maria Ortese risuona ancora di più dopo aver letto queste parole. Anna Maria Ortese e i suoi ragionamenti sulla sparizione del libro, sull’imperativo della vendibilità nel mondo dell’editoria, sulla narrativa industriale e lo scrittore prefabbricato (vedi Corpo Celeste). Anche il libro è, di fatto, una proprietà. L’autore ne cede i diritti all’editore tramite contratto.
Dice tanto Mario Martone nella sua introduzione, cogliendo nodi cruciali della raccolta e della scrittura di Barbara Buoso. “Nei suoi racconti scorre la vita” (p. 8), scrive. Ed è così. Nei suoi racconti c’è vita quotidiana, carnale, spirituale, concreta e immateriale.
Chi non ha mai avuto a che fare con il concetto di proprietà? E non solo di beni materiali. In questa raccolta di nove racconti, pubblicata da Vita Activa Nuova, Barbara Buoso esplora varie accezioni di questo concetto, nella forma della privazione, dell’espropriazione, appunto. Privazione di diritti, di affetto, di parola, di autonomia, di amore, di libertà. Alienazione da sé.
Nel primo racconto, L’ultimo mare, Fabio, lascia la terra natale, il Polesine, per arruolarsi in marina e vivere per mare. Finché il mare non gli sarà strappato.
In Falene d’estate, Nicola e Filippo sono lavoratori di un’azienda agricola votata alla produttività, di quelle in cui ci si spacca la schiena senza sosta, senza feste, anche con il caldo asfissiante, quello che di notte fa esplodere anche i feretri al cimitero accanto.
Distante dalla notte è il racconto dell’onnipresenza materna nella vita di Gian Marco. Una figura ingombrante che rende difficile la sua emancipazione: “mi diceva sempre che nessun amore è più grande di quello di una madre verso un figlio” (p. 45). Alienata lei stessa da sé, nella sua devozione di madre, che le sarà fatale.
Il ronzio delle vespe ci racconta Dario e muri di incomprensione che gli si parano davanti. Dario e il suo alfabeto anarchico, Dario e le sue porte invisibili aperte nell’aria, varchi per un linguaggio nuovo, incomprensibile da questa parte del mondo, aperture sui muri di incomprensione che vogliono addomesticarlo, tirarlo dentro i confini del “giusto”, espropriarlo di quel sé sovversivo.
Dalle porte invisibili di Dario, La terra di Emanuele ci mette davanti ai cancelli dei quindici ettari di cui il protagonista si prende cura, ma che di fatto non gli appartengono: il diritto di enfiteusi prevede che se ne occupi previo pagamento di un canone con la condizione di migliorare il fondo. Ma un’alluvione devastante cambia le carte in tavola: contano più il lavoro e l’amore per la terra o un nome sopra una carta?
Dopo la terra e l’acqua, arriva il fuoco: in d.p.i. – dispositivi di protezione individuali c’è Clara e il corso antincendio che deve seguire per ragioni di lavoro. Clara ligia al dovere, Clara precisa, Clara che si priva di un amore in carne e ossa. Clara che impara le regole dell’innesco: come una fiamma può essere attizzata, oppure spenta.
Ne La casa del figlio è l’affetto a spegnersi, o meglio a nascondersi dietro l’edificazione dell’agognata casa, di quella che pare una sicurezza agli occhi dei genitori – per sé stessi e per la loro prole – e che però lascia indietro un tempo di amore perduto.
Amore perduto è anche quello di un fratello e una sorella in Di notte seguivamo le stelle. Un affetto che si spezza nel quadro della malattia materna, amore tra i più fragili, equilibrio tra i più delicati, che rompendosi lascia scie di rimorsi e rimpianti.
L’ultimo racconto, ci sentivamo dio, scorre come un pezzo di teatro, luogo di soglie per eccellenza, che racconta l’inverno gelido del 1985, quando l’Adige ghiaccia e si fa strada, quando il tempo si rompe e la neve fitta offusca i confini, i recinti, le demarcazioni, e – paradossalmente – salva le vite.
A guardar bene, in questa raccolta di racconti si parla molto di lavoro. E non solo del lavoro inteso come mestiere o professione, ma soprattutto del lavoro inteso come fatica, come pena, come sacrificio. Come nel caso dei genitori di Simone: “Il lavoro, per loro due, non era mai finito” (p. 116). Oppure come nel caso di Clara, che interagisce virtualmente nelle chat perché nella vita vera la dimensione del lavoro sembra aver occupato tutto lo spazio: “Di cosa avrebbe parlato, nel mondo reale? Del lavoro che faceva da vent’anni?” (p. 104). Dovere e sacrificio sono concetti sempre esproprianti, che ci privano del desiderio o, peggio, del diritto di desiderare. In questo senso anche l’idea, molto cristiana, che ha Valeria della maternità e dell’amore. Dedizione come abnegazione, come rinuncia a sé. Un abnegare che diventa annegare.
“Quando abbiamo imparato a vivere, moriamo”: questa la citazione – tratta da Nei mari estremi di Lalla Romano – in epigrafe a La casa del figlio, ma che potremmo porre a monito di ingresso nelle nostre esistenze. Le citazioni poste in epigrafe alla raccolta e ai singoli racconti sono una mappa di indizi che dialogano con il testo e lo innestano in quella trama di rimandi che poi è la letteratura, e la vita. E la memoria. Lo scrittore – l’artista – è un ascoltatore più che un oratore, un’antenna che percepisce e recepisce per poi elaborare e restituire, contribuendo all’immensa tessitura di quell’intertesto, o palinsesto, che è la letteratura.
In letteratura anche il paratesto parla. E così come i titoli, le introduzioni e le epigrafi, anche l’immagine e i colori della copertina ci interrogano. Sulla copertina di Espropriazioni uno scatto di Luigi Ghirri emerge da un delicato fondo monocromatico. I colori chiari della foto sembrano chiamare in causa uno sguardo indagatore che scruta e racconta la realtà con respiro ampio ma capace di infilarsi nelle fratture e nelle crepe più impercettibili. Barbara Buoso muove questo sguardo sulla vita e ci dona questo viaggio intenso fra le soglie e le crepe dell’esistenza.
Articolo a cura di Sara Concato
Espropriazioni
Barbara Buoso
Vita Activa Nuova, 2023
pp. 184, 18 euro