Gli A Place To Bury Strangers arrivano a Roma, distruggono tutto e vanno via

Tempo di lettura 4 minuti
“The loudest band in New York” sbarca nella capitale ed allaga il Monk con il loro mare di suoni.

Dalla Grande Mela alla Città Eterna, gli A Place To Bury Strangers l’11 aprile si sono esibiti nel club capitolino Monk.

In apertura la band portoghese MAQUINA, un mix di ritmi sincopati ed ossessivi con tante influenze sonore che vanno dal Kraut-Rock al Noise-Rock passando per la Neo-Psychedelia, un trio ipnotico ed ammaliante.
Anche nella dimensione live la band di Lisbona è stata impeccabile, inarrestabili, neanche quando al bassista è saltata una corda, ha continuato a suonare senza crearsi il minimo problema o ad accennare un attimo di esitazione, treni.

Da un trio all’altro, salgono sul palco gli APTBS e suoni distorti, fischi e frequenze basse iniziano a riempire la sala.
La band statunitense capitanata da Oliver Ackermann e soprannominata The loudest band in New York porta la loro miscela di Noise-Rock, Post-Punk, Shoegaze, caratterizzata dal wall of sound che riescono a sprigionare grazie all’esasperazione di alcuni effetti che moltiplicano il suono degli strumenti.
Un concerto dove è inutile concentrarsi nel cercare di capire tecnicamente cosa stanno facendo i musicisti. Il modo migliore per godersi un live del genere è abbandonarsi e lasciare che l’onda di suono ti travolga in pieno.

Gli oltre 20 anni di carriera si notano e ne giova lo spettacolo, si parte subito con Oliver che prende la chitarra e lascia che il pubblico nelle prime file suoni e maltratti le corde della sua Fender.
Mentre la platea era immersa nel suono della band, ci pensa la batterista ad interrompere quella sorta di trance collettiva prendendo un timpano dalla sua batteria, portandosi al centro del pit e, seguita dal frontman, iniziando a suonare e a picchiare la pelle della percussione.
Un momento quasi tribale con gli APTBS al centro e tutto il pubblico che balla e si muove attorno a loro, come se fosse un rito sciamanico.
Nella parte finale del concerto è il caos a farla da padrone, iniziando dalla chitarra scaraventata a terra che si spacca ma non del tutto e quindi Oliver, subito dopo, riprende a suonare con quella fender ridotta malissimo.
Luci e macchine del fumo utilizzate come turibolo per disorientare il pubblico e creare effetti scenici stordenti e disorientanti.
Un live che si tramuta in performance artistica astratta e confusa ma ci arriva col tempo, cresce brano dopo brano fino ad esplodere all’apice del climax.

Torni a casa che ti fischiano le orecchie, stordito, spettinato ma felice e alla fine è quello che ti aspetti da un concerto degli A Place To Bury Strangers.

Testo di Dario Patti
Foto di Daniele Maldarizzi

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