Il terrore di fare figli in una terra devastata

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La violenza riproduttiva colpisce Gaza più che mai: le ONG riferiscono un allarmante incremento nel numero di aborti spontanei per le condizioni estreme di stress in cui vivono le donne durante la gestazione.

La violenza riproduttiva che dallo scorso ottobre affligge le donne di Gaza non riguarda solo l’assenza di risorse e supporto istituzionale per poter mettere al mondo in sicurezza i propri bambini. Gli orrendi effetti sulla maternità che il genocidio palestinese sta provocando, con oltre 33.800 morti nella Striscia – di cui il 70% donne e bambini -, si presentano sin dall’inizio della gravidanza, per l’impossibilità di ricevere cure mediche durante la gestazione, e fino al post parto, che avviene in condizioni estreme di insalubrità e di affollamento e senza spazi sicuri dove le madri possano rimettersi da un punto di vista sia fisico sia emotivo.

Ancora prima, occorre domandarsi, com’è è possibile portare avanti una gravidanza senza quasi accesso ad acqua potabile, medicinali o cibo? Quali sono gli effetti sulla salute materna e, quindi, sul feto dello stress dovuto all’assedio? Cosa accadrà nel futuro prossimo a questa generazione di bambini nati nel più assoluto caos? 

Fernanda Vega, coordinatrice di Médicos del Mundo e coordinatrice della risposta sanitaria a Gaza, ha visto da vicino l’orrore con cui hanno a che fare oggi le donne palestinesi. Racconta a El Salto le difficoltà che devono affrontare le donne che mettono al mondo figli nel territorio semidistrutto che oggi è Gaza – la maggior parte di loro è rimasta incinta prima del 7 ottobre – e che inizia nel momento in cui, a causa degli attacchi nell’enclave, non si possono fare i controlli prenatali. Vuol dire che bambini con importanti carenze nutrizionali e senza integratori di nessun tipo non vengono monitorati, il che rende impossibile individuare qualsiasi patologia che i feti possono sviluppare.

«Le ONG hanno inviato degli ecografi, ma c’è un dilemma etico nel senso che le persone che eseguono le ecografie possono dire “il tuo bambino ha una malattia” o “non si muove” ma poi, che fai? Ora come ora non c’è modo di mitigare quel che può accadere a questi feti», sostiene Vega. Spiega anche che esiste di fatto un numero altissimo, ma fino ad oggi non quantificato, di aborti spontanei, dovuti all’aumento incontrollato dello stato di tensione in cui vivono quotidianamente le gestanti, ma si stanno registrando anche gravi problemi di riduzione del peso alla nascita, ritardo nello sviluppo o nella formazione del sistema nervoso o malformazioni.

Secondo questa dottoressa, le donne di Gaza hanno dovuto adeguarsi a uno scenario di sopravvivenza quasi animale nel quale, praticamente dalla notte alla mattina, sono passate da una gravidanza serena e condivisa all’interno di una comunità al vedersi obbligate a portare avanti una gravidanza in condizioni estreme e inumane. La mancanza di controlli e cure è qualcosa di estremamente nuovo per loro. 

«Le donne prima erano abituate a fare i controlli e a partorire in istituzioni sanitarie dove la prima opzione era sempre il parto naturale, ma in cui era sempre possibile fare un parto cesareo, esistevano ospedali che avevano reparti di neonatologia, mentre ora molte di loro si ritrovano obbligate a sfollare e a vivere in tende e senza un ospedale dove poter partorire», dichiara Sofia Piñeiro, coordinatrice medica di Medici Senza Frontiere a Rafah.

«Posso solo immaginare cosa può provare una donna con una gravidanza desiderata, contenta e che poteva fare i controlli prenatali, che d’improvviso si trova nel terzo trimestre senza un posto dove partorire e con la consapevolezza di non poter dare cibo né protezione ai propri figli quando nasceranno», aggiunge Piñeiro. Spiega che durante la gestazione l’elemento più sfavorevole è lo stress e l’ansia che possono vivere le donne, sia per il terrore deli bombardamenti quotidiani sulla città, sia per l’incertezza di un futuro per niente incoraggiante che attende i propri figli.

Partorire in una città in rovina

Secondo quanto comunicato dall’UNRWA, dopo la distruzione dell’ospedale di Al-Shifa, il più grande e il principale punto di riferimento della Striscia con 750 posti letto, 26 chirurghi e 32 sale di terapia intensiva, solo 10 dei 36 ospedali di Gaza sono ancora in funzione, e diversi solo parzialmente. L’ospedale di Al Emirati è l’unico con un reparto di maternità operativo in tutta la Striscia di Gaza, per cui le donne che devono partorire vanno direttamente lì, ed è passato dai circa 15 parti al giorno agli 80. Le donne devono partorire, nel migliore dei casi, in queste sale affollate, in cui ci sono due o tre donne per letto non essendoci ulteriore spazio, sebbene molte partoriscano per strada o nelle tende. «Stanno partorendo senza anestesia, quelle che fanno il cesareo finiscono per contrarre infezioni poiché il taglio per partorire avviene in luoghi completamente insalubri e questi stessi cesarei, come le altre operazioni chirurgiche, vengono eseguiti senza anestesia. A livello mentale, tutto questo si trasmette al neonato nel corso del parto e condiziona il legame con il bambino», spiega Vega con preoccupazione.

In una cultura come quella islamica, in cui il pudore e la riservatezza sono particolarmente importanti, la sovraesposizione in cui si trovano costantemente le donne ha ripercussioni dirette su autostima e relazioni sociali o, come afferma Piñeiro, «su tutto il loro modo di essere, perché la cultura non è qualcosa a cui si può rinunciare o che si può mettere da parte perché c’è una guerra». Per mitigare la costante sensazione di vulnerabilità che stanno sperimentando, non mancano mai le reti di sostegno e solidarietà tra donne che si riconoscono compagne di fronte alla stessa avversità, nonostante la generalizzata disperazione. «Mi ricordo di un’immagine in sala parto, eravamo quasi tutte donne perché è un luogo dove si allatta, così la presenza degli uomini è quasi ridotta a zero in quella sala affinché le donne possano stare con il capo scoperto e a proprio agio. C’era una donna con un piede fuori dalle lenzuola fino alla caviglia e l’infermiera andava e le copriva il piede, come a dire, so che se fossi sveglia non vorresti mostrarti, così funziona la sorellanza», racconta Piñeiro.

La dottoressa paragona la sovraesposizione che stanno provando le donne musulmane in pieno genocidio alla vergogna che sentirebbe qualunque donna occidentale se dovesse andare a comprare il pane nuda, con un conflitto in corso o meno. Così, la storica sorellanza tra donne in Palestina raggiunge anche chi si trova in situazione di povertà mestruale. All’inizio del conflitto, un gran numero di donne hanno iniziato a condividere le loro pillole contraccettive per evitare di avere le mestruazioni in condizioni che, come più tardi è stato provato, avrebbero messo in grave pericolo la loro vita.

Col tempo sono passate dal condividere anticoncezionali a fare lo stesso con gli assorbenti che loro stesse fabbricano a mano con il tessuto delle tende da campeggio, dal momento che è insufficiente il kit mestruale che forniscono organizzazioni per i diritti umani come il United Nations Population Fund (UNFPA – Fondo delle Nazioni Unite per le popolazioni) che include fornitura base per l’igiene mestruale come sapone e tamponi. Secondo quanto argomenta Ammal Awadallah nel suo articolo The forgotten women and girls in Gaza: a sexual and reproductive health catastrophe le donne stanno prendendo pasticche di noretisterona che solitamente vengono prescritte per disturbi quali flusso mestruale eccessivo, endometriosi e ciclo doloroso. Ci sono perfino donne a cui le mestruazioni non vengono più a causa dello stress.

La stessa UNFPA, in riferimento all’area della West Bank, ha riferito che ci sono oltre 73.000 gravidanze in corso, il che vuol dire che più di 8120 donne partoriranno nel mese di maggio in pieno conflitto. Questi numeri sono molto superiori a quelli di novembre, dopo un mese soltanto dall’inzio dei bombardamenti, quando erano più di 50mila le gravidanze in corso (circa 166 parti al giorno), come El Salto aveva raccontato. Poiché l’assoluta precarietà e l’assenza di mezzi, tecnici e umani, è ormai la normalità a Gaza, membri dell’UNFPA considerando l’accesso ad adeguata assistenza medica per tute le donne che devono partorire una “sfida inimmaginabile” per medici e ostetriche. Nell’articolo “Scelte impossibili a Gaza” l’organizzazione evidenzia come le donne stiano dando alla luce bimbi prematuri a causa del terrore e che, come conseguenza dell’aumento delle emergenze ostetriche, poche sopravvivono alla gravidanza e al parto, e quelle che ci riescono devono tornare a rifugi affollati e insediamenti informali in cui mancano acqua potabile e impianti igienici e dove le malattie da infezione abbondano.

Una generazione condannata dalla barbarie israeliana

Cosa succederà ai bambini nati nel bel mezzo del conflitto è ancora una grande incognita. Piñeiro sottolinea che, dopo il post parto, «le madri dovrebbero rimanere almeno 24 ore in ospedale per fare i controlli, ma questo tempo è stato ridotto a sei ore o persino quattro. Questo con ogni probabilità vuol dire che non stiamo riuscendo a identificare per tempo moltissimi problemi che è necessario monitorare nel post parto, ben oltre il fatto che la donna non ha avuto emorragie o febbre, perché ci sono patologie dei neonati che solitamente compaiono non prima delle 24-48 ore».

Jaldia Abubakra, di Alkarama – Movimiento de Mujeres Palestinas (Associazione di donne palestinesi nella diaspora), denuncia a El Salto l’assenza di risorse per assistere i neonati prematuri. «Non ci sono incubatrici, non c’è elettricità e a mala pena ospedali, di fatto già dal secondo mese dopo l’attacco a Gaza le incubatrici nell’ospedale centrale sono state staccate».

Per i bimbi che avranno la fortuna di sopravvivere ai primi mesi di vita, per il loro futuro a medio-lungo termine Piñeiro teme un aumento senza precedenti di casi di disabilità per malattie che non sono state curate per tempo o nel modo corretto perché non hanno potuto ricevere le cure adeguate come chirurgia ricostruttiva o ricoveri prolungati in ospedale per mantenere l’infezione sotto controllo. Nel lungo termine, Abubakra prevede che, dopo tutto quello che è successo e per gli innumerevoli traumi che questa nuova generazione di bambini e bambine palestinesi  accumulerà sin dal momento della nascita, «avranno bisogno di molta assistenza psicologica, molta terapia per poter affrontare tutto questo» e ricorda gli effetti che ebbe sui più piccoli l’attacco di Israele nel 2014 – Operación Margen Protector – , il che le fa prevedere l’enormità degli effetti del genocidio sulla salute mentale. «C’erano molti bambini che avevano paura, che avevano gli incubi, bambini che di notte facevano la pipì a letto per la paura e il terrore, che balbettavano, che avevano paura di uscire dalla loro cameretta per andare in bagno, e un lungo eccetera”. L’attivista aggiunge in proposito che “molti bambini hanno perso tutta la famiglia, hanno visto orrori perché hanno visto corpi colpiti a morte, smembrati davanti a loro e questo è qualcosa che necessita tempo per essere sanato».

Traduzione di Valentina Cicinelli via elsaltodiario.com

Immagine di copertina via unfpa.org

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