L’elefante nella stanza: Anna Maria Ortese e i meccanismi dell’editoria
Un elemento sembra sempre latitare nelle diatribe che infiammano il mondo intellettuale e letterario: l’editoria è un’industria. Rileggendo Anna Maria Ortese ne rintracciamo certi perenni aspetti.
Di tanto in tanto nel mondo intellettuale si accende un dibattito, su temi sempre molto importanti, questo è innegabile. Da certi dibattiti, però, sembra mancare qualcosa. Qualcosa che potrebbe parzialmente chiarire certi nodi e aiutare a dissolvere certi stereotipi. Ad esempio sulla scrittura delle donne.
Non si sottolinea mai abbastanza il ruolo di grande filtro fra autori/autrici e scaffali delle librerie ricoperto dalle case editrici. Di fatto sono loro che decidono cosa pubblicare (e di chi) e cosa “spingere”, promuovendo titoli e filoni più vendibili, più spendibili sul mercato. Spesso ci sono anche le agenzie letterarie fra autori ed editori; le pubblicazioni possono essere anche su commissione.
“Voglio dire solo che il libro sparì. E sparì proprio per la ragione gridata (alla romana) dal buon giovane libraio: che non era stato concordato con l’editore. Era accaduto che la prima direzione della Casa, a cui il libro piaceva, era, subito dopo contratto, mutata. E la direzione succeduta alla prima desiderava, per non dire esigeva, dei mutamenti. E io non obbedii. E il libro sparì.”
(Anna Maria Ortese, Corpo Celeste, Adelphi, p. 23)
In Corpo celeste Anna Maria Ortese riflette tanto sui meccanismi dell’editoria, non si dà pace di fronte alle dinamiche della produzione industriale, delle esigenze del mercato, del difficile rapporto fra l’arte e l’economia, fra l’artista e il guadagno: i diversi, gli “incomprabili” (p. 31), difficilmente vengono pubblicati, scarsamente vengono letti, non guadagnano abbastanza, la miseria se li porta.
E alla fine magari danno anche ragione a chi li ha espulsi dal cerchio dorato, convincendosi che probabilmente non avevano nulla da dire e da dare.
Non sembra molto diverso da quanto vediamo oggi, nel mercato editoriale.
Le case editrici sono imprese commerciali. Il libro è (anche) un prodotto. Un oggetto da vendere. L’ago della bilancia deve orientarsi all’equilibrio fra qualità e vendibilità. Che cosa significa “vendibilità”? Quando e come un testo è vendibile? Si possono delineare delle caratteristiche come si fa per prodotti di altro genere? Efficienza, gradevolezza, semplicità d’uso, resistenza all’urto?
Le case editrici sono imprese commerciali. Producono e distribuiscono. Ma in che consiste la produzione in questo settore particolare dell’industria? A monte c’è una cessione di diritti. Di un’opera, l’autore cede i diritti per un compenso economico. Su ogni copia guadagnerà una percentuale. È interesse di tutti vendere.
Alla fine – come in ogni altro settore industriale – si danza intorno ai soldi. La persona che scrive è, di fatto, una persona lavoratrice. Scrivere è lavorare. Chi scrive deve essere pagato.
I soldi sono l’unico metro nelle transazioni. In questo sistema economico, sono l’unico strumento per vivere.
I soldi sicuramente fanno la sopravvivenza, o il benessere. Ma fanno anche la libertà, l’indipendenza, l’autonomia di chi scrive? È autonomia vera se esistono binari – per quanto apparentemente invisibili – entro cui tenersi, degli argini da cui non uscire troppo? L’indipendenza, l’autonomia dai criteri del mercato editoriale, come si può avere se da esso dipende il reddito dell’autore? “Ma intanto guadagni reali, che consentissero la vita autonoma (indipendente da editori e giornali), e quindi un libero scrivere, io non ne vedevo mai”, scrive ancora Anna Maria Ortese in Corpo celeste (p. 50).
“E penso di non essere un vero scrittore se, finora, non mi è riuscito di dire neppure lontanamente in quale terrore economico – e quindi impossibilità di scrivere – viva, in Italia, uno scrittore che non prenda gli Ordini. E che non abbia avuto, nascendo, nulla di suo, neppure un tetto”
(Corpo celeste, p. 52).
Anna Maria Ortese è una scrittrice (e una pensatrice) straordinaria. Una delle migliori del Novecento. Ora (forse) lo sappiamo, seppure si dica sempre troppo poco. Ma a lei non può dirlo nessuno. A lei non lo ha detto nessuno.
Eppure, non poteva fare altro che scrivere. Imperterrita, nonostante i dettami del mercato.
Sempre Anna Maria Ortese, nell’incipit de L’iguana, evoca un’editoria lombarda a cui fa gola il tema della “rivolta dell’oppresso” ma che fa confusione sulle nozioni di oppressione e rivolta. Il personaggio dell’editore chiede espressamente all’amico – protagonista del romanzo – di procurargli una storia interessante, magari qualcosa “dove si esprima la rivolta dell’oppresso” (L’iguana, in Anna Maria Ortese, Romanzi, vol. II, Adelphi, p. 10).
Capiamo che questa rivolta fosse un tema all’epoca in voga purché trattato in termini rassicuranti.
“Simili ragionamenti avrebbero compromesso il ritmo della produzione, dove invece il capovolgimento in termini francamente tradizionali, e perciò rassicuranti, del conflitto cui si è accennato, allora assai di moda, garantiva approvazioni, eccitamento, simpatie, e quindi vendite, e quindi, daccapo!, i cari denari”
(L’iguana, cit., pp. 10-11).
Inutile dire che il libro di Anna Maria Ortese narra una storia del genere in termini tutt’altro che rassicuranti.
La vendibilità garantita dal “capovolgimento in termini francamente tradizionali, e perciò rassicuranti, del conflitto”.
Una rivolta in termini rassicuranti. È disarmante l’attualità di questo ragionamento.
Forse oggi esiste qualcosa di simile, una specie di “quota di straripamento”. Lo straripamento è tipico di realtà editoriali indipendenti, spesso piccole. Ma anche le grandi se lo concedono, compensando poi con il resto della produzione. Sembra però esserci ucna soglia oltre cui non andare. La soglia corrisponde a quanto è assorbibile dal mercato. A quanto è tollerabile. Pubblicare solo autori straripanti sarebbe una rovina. Pubblicare solo penne eccedenti la norma, eccedenti le categorie del mercato, i trend del momento, significherebbe non vendere.
Chi sa se poi sarebbe veramente così…
Articolo a cura di Sara Concato
Immagine di copertina via Flickr