Popoli indigeni dell’Amazzonia: quando resistere è sopravvivere

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Preservano le aree più incontaminate del pianeta in cui viviamo ma ricevono in cambio indifferenza e oltraggi: tra deforestazione e infrastrutture, l’esistenza dei popoli indigeni volontariamente isolati è sempre più a rischio.

Siamo abituati a considerare l’isolamento come una condizione negativa del vivere. Nel caso accada, ci auguriamo che sia momentaneo. Come nel recente passato causa pandemia, ad esempio. Eppure, l’isolamento può essere una scelta volontaria, fatta con l’obbiettivo di fuggire alla deriva delle conseguenze di quella che, oggi, consideriamo la normalità. È una bella ed importante riflessione quella ci impongono Los pueblos aislados – i popoli indigeni isolati – della foresta amazzonica.

Persone, tribù, che un secolo fa si rifugiavano negli angoli più inaccessibili della giungla per evitare di finire coinvolti nelle industrie della produzione di gomma che iniziavano a caratterizzare – ed occupare – il territorio. Da allora, hanno vissuto in modo autosufficiente, al di fuori dell’economia di mercato, dei beni di consumo e delle catene produttive nazionali. Oggi i loro territori continuano a essere tra i meglio conservati del bacino e sono esemplari per clima, biodiversità e sicurezza alimentare globale: i tre argomenti chiave per la sopravvivenza del nostro pianeta.

Fu per proteggere chi ha scelto tale stile di vita e di rapporto con l’ecosistema che in Perù, nel 1990, nacque la Riserva Territoriale Kugapakori, Nahua e Nanti (RTKNN): un’area di 443.887 ettari, situata tra i dipartimenti di Cusco e Ucayali, sud del Paese, con lo scopo di preservare territori e popoli dall’esterno.

La riserva, oggi, è a rischio: il progetto di una strada voluta dal distretto di Megantoni (più a nord) passerebbe a filo di confine, meno di 200 metri. Un’infrastruttura così vicina “Potrebbe facilitare l’accesso ad attività illecite nella zona e, di conseguenza, aumentare il rischio di contatto con gruppi volontariamente isolati”: questo è il timore del Coordinatore Regionale dei Popoli Indigeni, del Consiglio Machiguenga e di Aidesep, Organizzazione indigena peruviana composta di 64 popoli amazzonici, che hanno congiuntamente manifestato la loro preoccupazione alle autorità locali e nazionali. “La costruzione di questa autostrada non farà altro che portare ulteriori invasioni massicce alla riserva, altre attività di disboscamento illegali, deforestazione su larga scala, traffico di droga e minacce più serie per i fratelli la abitano” si legge ancora nella lettera aperta alle Istituzioni.

L’Aidesep, inoltre, denuncia una comunicazione colpevolmente tardiva: il progetto sarebbe stato presentato nel 2019 mentre e le popolazioni locali ne sono venute a conoscenza solamente qualche mese fa. Inoltre, sempre secondo la rappresentanza indigenza, anche l’analisi della fattibilità lascia a desiderare: il Senace, Ente adibito alla licenza ambientale del progetto, ha classificato la strada come di categoria II, il che significa che necessita di uno studio di impatto ambientale semi-dettagliato e non dettagliato cioè più completo e rigoroso, come si aspettava l’organizzazione indigena- poiché è più completo e rigoroso.

L’idea dell’autostrada, del resto, è solo l’ultima e tangibile minaccia delle realtà amazzoniche: l’altra, annosa, è la deforestazione. Secondo il Progetto di Monitoraggio dell’Amazzonia Andina, nel 2022, la deforestazione in Perù ha raggiunto i 144.683 ettari; e tra il 2020 e il 2021 sono andati perduti quasi 2,4 milioni di ettari di aree boschive, secondo i dati del Ministero dell’Ambiente (Minam).

E l’andamento difficilmente migliorerà visto che lo scorso dicembre il Congresso della Repubblica ha modificato la legge forestale vigente dal 2015 apportando cambiamenti che favoriscono la libertà di azione di proprietari terrieri e di chi, anche impropriamente, occupa terreni forestali. Dopo quattro anni di consultazione con diverse organizzazioni, comprese quelle indigene, la modifica è stata approvata dal Legislativo ma ha trovato preoccupazione e dissenso tra ambientalisti, rappresentanze indigene e attivisti internazionali.

Sotto accusa, nella legge di riforma, soprattutto la riduzione decisionale del Minam rispetto a quali foreste possano essere dedicate alla produzione ed il fatto che basterà avere occupato un territorio per dimostrare una “prova di possesso” cui le autorità regionali corrisponderanno lo status di “zone di esclusione a fini agricolisenza completare il processo di classificazione del suolo, cosa che fino ad oggi era richiesta per capire se un terreno dovesse dedicarsi ad agricoltura o foresta.

Il timore è che la nuova norma che incoraggi ulteriormente le incursioni territoriali a scapito della presenza indigena. Sempre Aidesep, inoltre, denuncia lo Stato per non avere consultato i popoli indigeni, come è stato fatto prima dell’approvazione della legge originaria e come indicato nella Convenzione 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), firmata dal Perù. Anche le Nazioni Unite hanno criticato la riforma per “Gli effetti negativi sui territori ancestrali dei popoli indigeni dell’Amazzonia peruviana, per lasciarli insicuri e vulnerabili rispetto al resto della popolazione”.

Non è solamente nel Perù amazzonico che resistono i popoli isolati: in Paraguay, Brasile, Indonesia ed India popolazioni lottano contro deforestazione, sfruttamento minerario e contaminazione da virus portati da estranei quando non contro atti di sterminio e genocidi operati da quest’ultimi per accaparrarsi i territori. Per vivere, non possono fare altro che tentare di resistere.

Articolo a cura di Sara Gullace

Immagine di copertina via Twitter

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