La moda dichiarata “Fuorimoda!” nel nuovo libro di Matteo Ward
A Milano l’imprenditore e attivista Matteo Ward ha presentato il suo nuovo libro “Fuorimoda!”, per indagare le origini in-sostenibili della moda e suggerire alcune soluzioni al problema.
Matteo Ward presenta a Milano “Fuorimoda!”
Quando sono entrata nella libreria Mondadori in Piazza Duomo a Milano, mi sono sentita un po’ a disagio. Non sono molto esperta di moda, nemmeno di quella cosiddetta sostenibile, poiché a volte ho la sensazione di non fare abbastanza, di capirci troppo poco di tessuti, stilisti e brand responsabili. Perciò, alla presentazione del nuovo libro Fuorimoda! di Matteo Ward (pubblicato pochi giorni fa da De Agostini), tenutasi l’11 settembre nella capitale italiana di questa industria multimiliardaria, la paura di sentirmi fuori luogo era alle stelle. Mi aggrappavo a un’unica sicurezza: avevo già incontrato l’autore in passato e mi aveva dato l’impressione di essere una persona semplice e affabile. Matteo è co-fondatore e CEO di WRAD, un ente benefico che offre consulenza e attività educative sulla sostenibilità. È anche membro dell’organizzazione Fashion Revolution Italia, nata dopo il disastro del Rana Plaza in Bangladesh per tutelare i diritti dei lavoratori nell’industria della moda.
La tana del lupo
La tana del lupo era come me la immaginavo. Le persone, vestite in modo casual ma curato, si salutavano e si abbracciavano, con quell’enfasi che li faceva sembrare amici di una vita, ma che non si vedono da una vita. Due file intere di sedie riportavano il cartello “riservato”, anche se in totale le file erano cinque. Il fatto che manchi lo spazio persino nella catena di librerie più grande della nazione sarebbe un altro grande tema su cui riflettere. Comunque, subito ho pensato che fossero tutti del settore, un settore ai miei occhi esclusivo ed escludente, talvolta giudicante. Non appena Matteo Ward ha iniziato a parlare, però, mi sono resa conto che i miei pregiudizi erano soltanto nei miei occhi. L’incontro è stato illuminante, l’autore e i relatori hanno condotto con naturalezza ed efficacia un’ora di presentazione ricchissima di contenuti. Il pubblico era molto coinvolto, me compresa.
Quando il Re sole inventò il fuori-moda
Il libro è nato dalla frustrazione di Matteo e di chi come lui vorrebbe cambiare l’industria della moda, ma non sta ottenendo risultati efficaci. L’autore, quindi, ha pensato di scavare più a fondo, chiedendosi quando l’industria della moda ha iniziato a essere un problema. Con mia sorpresa, non con il boom economico, o con l’invenzione del poliestere, né dopo l’avvento delle pubblicità in televisione. Tutto risale a molto prima, più precisamente al 1678, quando il Re Sole, Luigi XIV, per far sì che nelle casse regie entrasse più denaro, ha deciso che tutti gli abiti dei nobili dovevano andare fuori moda almeno due volte all’anno, così da innescare una catena infinita di acquisti. Lo stesso hanno fatto gli Stati Uniti nel 1791 anche grazie alla rivoluzione industriale: sfruttando la cultura degli artigiani si è creata una industria che producesse non vestiti, ma denaro. Insomma, il concetto alla base dei trend stagionali o mensili è strettamente legato al guadagno di pochi.
La moda è vita
L’intenzione di Matteo Ward è seguire quel meccanismo: se dichiarare qualcosa fuori moda ha portato a grandi cambiamenti, per cambiare nuovamente questo settore bisogna dichiarare fuori moda le ingiustizie, le sostanze tossiche nei tessuti, la sovrabbondanza di vestiti, i trend. “La moda è vita”, dice l’attivista. E in effetti coprirsi è necessario per la vita sociale e talvolta anche per la sopravvivenza stessa. La moda, poi, è fatta di persone e della loro passione e può essere un modo per esprimere se stessi o la propria arte. “Bisogna eliminare il concetto di industria della moda e riportare quello di moda come industria culturale, perché grazie a quello possiamo ispirare abitudini positive in questo sistema”, conclude Matteo.
I vestiti sono come il cibo
Se vi sembra un po’ idealistico, non vi sbagliate. E, nonostante gli ideali siano necessari, è altrettanto necessario trovare concretezza. Infatti, l’intervistatore Simone Marchetti, direttore di Vanity Fair Europe, ha chiesto a Ward come spiegare il problema, per esempio, a un bambino di otto anni e, quindi, come spiegarlo in modo concreto e comprensibile. La chiave è, secondo Matteo, paragonare i vestiti al cibo, così che sia più facile attribuire loro un valore più grande. “Ciò che indossiamo – dice il co-fondatore di WRAD – viene dagli stessi ingredienti con cui è fatto il cibo: acqua terra ed energia. Ma se fin da bambini ci insegnano a non sprecare quello che mangiamo, a non mangiare troppo perché fa male e a non mangiare cose dannose per il nostro organismo, nessuno dice nulla su quello che indossiamo. Quante volte – aggiunge – ci hanno detto di mangiare più frutta e verdura? Quante volte invece ci dicono che la pelle assorbe, respira, e quindi è meglio indossare più fibre naturali? I bambini tra 0 e 12 anni non hanno nemmeno i filtri per proteggersi da alcune sostanze tossiche dei tessuti, ma in pochi lo sanno”.
Le conseguenze di tutto questo sono disastrose: vengono estratte costantemente risorse preziose non per la sopravvivenza, bensì per produrre 100 miliardi di capi e 48 miliardi di scarpe all’anno. “Dobbiamo creare un rapporto più stretto e umano con il guardaroba”, dice Matteo. Per questo, ispirato alla Piramide alimentare del Ministero della Salute, l’autore ha stilato un decalogo su una sana dieta di vestiti. Qualcosa di decisamente concreto e semplice da fruire.
Come convincere i/le giovani a comprare vestiti sostenibili?
A questo punto, in un momento di fermento e speranza, è arrivata la domanda scomoda, posta comunque con competenza e rispetto da parte di Marchetti: “Molti giovani comprano il fast fashion pur avendo una coscienza della crisi ambientale e questo perché non guadagnano abbastanza. Come si può convincere un ragazzo o ragazza di 25 anni che ha appena finito di studiare e, se va bene, ha un contratto a tempo determinato e sottopagato a comprare capi sostenibili?”
La domanda del direttore di Vanity Fair Europe è più che legittima. Secondo l’ISTAT, l’Istituto Nazionale di Statistica, la disoccupazione giovanile (15-24 anni) si attesta al 20,8%, a fronte di una disoccupazione generale del 6,5%. Senza contare che, secondo un recente rapporto EURES i/le giovani che hanno la fortuna, perché spesso di questo si tratta, di trovare un lavoro, percepiscono in media 9.546 euro all’anno, cioè neanche 800 euro al mese. Il che non permette di coprire le spese di base, specialmente nelle grandi città. Alias, i diritti fondamentali delle persone non vengono rispettati.
Matteo Ward ha risposto con saggezza: “Non dobbiamo convincere i giovani a comprare vestiti sostenibili, costringendoli a scegliere tra fare la spesa e comprare un paio di pantaloni. Questo è un problema più grande di ingiustizia sociale, che poi ha causato il problema ecologico. Se “convincere” qualcuno equivale a “costringerlo” a fare qualcosa che va contro i suoi stessi interessi, scegliendo tra pagare l’affitto e comprare una maglietta, questa non è etica. Non può una industria condurci a questo estremo. Il mio libro vuole piuttosto farci incazzare, per riappropriarci della nostra capacità di essere ‘designer della nostra vita’, come diceva Enzo Mari”.
E aggiunge: “Il sistema non si cambia comprando t-shirt in plastica riciclata e cotone biologico, bensì tornando alla giustizia sociale”. Insomma, a un incontro sulla moda, ho trovato molti valori e lotte che condivido e che pensavo esserne molto distanti, come l’autodeterminazione personale e l’esercizio dei diritti fondamentali, come quello di vestirsi.
Non potevo denunciare nulla se non me stesso
Matteo Ward è entrato poi nel vivo di quella che è l’industria della fast fashion, squadernando le tragiche situazioni dei paesi che producono e smaltiscono i nostri vestiti. Il tutto si può vedere nella docu-serie JUNK – armadi pieni, fruibile gratuitamente su YouTube e di cui Matteo Ward è host e co-autore. In una puntata si vede il lavoro delle donne del Bangladesh, che si svegliano alle 4 di mattina, cucinano il cibo per tutta la famiglia, fanno la coda nei bagni pubblici, e salgono su una barca affollata per andare in fabbrica. Qui cuciono e stampano i nostri vestiti per 10-14 ore di alienazione totale e si guadagnano il pasto della giornata. Intanto, grazie a loro, le grandi industrie della moda diventano multimilionarie. “Queste donne, però, non hanno scelta!” Ha urlato Matteo.
Dopodiché, ci ha confessato che, quando è crollato il Rana Plaza nel 2013, la prima cosa a cui ha pensato era che fosse colpa loro, che non sapessero gestire il lavoro. In quell’anno era manager da Abercrombie and Fitch e non era ancora a conoscenza del lato oscuro di quell’industria. “Prima di partire per il Ghana – dice l’attivista – pensavo di andare per denunciare qualcosa. Ma quando sono arrivato ho visto ciò che accadeva davvero, mentre le persone mi dicevano di non avere scelta a causa della loro estrema povertà. In quel momento ho capito che non potevo denunciare nulla se non me stesso, per essere stato complice di quel sistema, che in fondo danneggia anche noi. Ho capito che il successo delle donne in Ghana è anche il nostro successo”.
Politica e sostenibilità ambientale: a che punto siamo?
Oltre a una responsabilità individuale, vi è sicuramente anche quella delle Istituzioni. Matteo Ward ha nominato il nuovo movimento politico NOS, fondato da Alessandro Tommasi, ex amministratore delegato di Will Media, che promette di contribuire al processo di transizione, interagendo con le istituzioni europee. Matteo stesso lavora come consulente alla Commissione Europea, dove ad oggi si stanno discutendo sei direttive nell’ambito della moda. Per esempio sulla provenienza delle materie prime, sullo smaltimento dei vestiti, e sulla tracciabilità degli stessi. Matteo ha anche invitato a firmare la petizione speak volumes, per far sì che le aziende condividano i dati di produzione e smaltimento dei capi.
Tutto questo, ci tiene a sottolineare l’attivista, è successo dopo centinaia di anni grazie ai movimenti dal basso. Un esempio è stato l’hashtag #whomademyclothes, lanciato da Fashion Revolution Italia, che le persone hanno iniziato a scrivere sulle pagine delle grandi case di moda. Un’altra direttiva in arrivo dall’Ue riguarda la comunicazione delle aziende, fondamentale per poter riconoscere le operazioni di greenwashing. Anche perché purtroppo ad oggi non esiste una certificazione affidabile per sapere cosa è sostenibile e cosa non lo è. Un suggerimento di Ward è diffidare di chi si dichiara 100% sostenibile, perché niente ha impatto zero. Quindi, ormai, in una fitta conifera di alberi finti, forse l’autenticità risiede in quello che mostra i suoi punti deboli, le imperfezioni e di conseguenza non usa pratiche manipolatorie per incentivare all’acquisto.
Cambiare l’industria dall’interno
Sara Sozzani Maino, collaboratrice di Matteo Ward e relatrice della serata, lavora per Vogue e si occupa di scoprire giovani talenti del design. Nonostante sia completamente immersa nell’industria della moda, ha dato l’impressione di essere uno degli alberi “autentici”. Lei stessa ha affermato di aver fatto parte per molti anni di quel sistema, ma che ora sta agendo dall’interno per riportare in questo settore il valore della responsabilità (senza scomodare, dice, la “sostenibilità”, termine troppo spesso abusato). “Sarebbe troppo facile per me – dice Sara – uscire dalla porta e aspettare che se ne occupino gli altri”. In effetti, è difficile cambiare un sistema che funziona in questo modo da centinaia di anni. Ma, secondo Sara, questo è solo l’inizio perché sta vedendo nascere molte realtà profondamente diverse dal passato.
Come ha sottolineato nel suo breve intervento lo scienziato Hakan Karaosman, che ha contribuito alla scrittura del libro Fuorimoda!, Albert Einstein diceva che non possiamo risolvere i problemi con la stessa mentalità con cui li abbiamo creati. Ecco perché è necessario dichiarare fuori moda l’idea che i vestiti vengano prodotti per il solo guadagno dei “Re sole” del mondo. Bisognerebbe invece diffondere uno slogan molto potente e che ormai spesso si vede nelle manifestazioni per il clima: non esiste giustizia climatica senza giustizia sociale.
Articolo a cura di Iris Andreoni