In Gambia stop alla mutilazione genitale femminile

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In primavera i conservatori gambiani avevano proposto una riforma abrogativa per ripristinare la mutilazione genitale femminile. Tentativo fallito: è una buona notizia per i diritti umani.

Il Gambia ha corso il rischio di fare un grave passo indietro in tema di diritti civili, ma adesso è ufficiale: il pericolo è scampato. Lo scorso luglio, infatti, il Parlamento ha votato contro la proposta di abrogazione della legge che vieta la mutilazione genitale femminile (MGF) – approvata nel 2015. Con 33 voti contrari alla riforma e 19 a favore, l’Assemblea Nazionale presieduta da Tombong Jatta ha chiuso il dibattito legislativo respingendo l’idea di ripristinare una pratica insana e mortalmente pericolosa – oltre che eticamente ingiusta.

Fondamentale la pressione di Nazioni Unite, UNICEF ed Action Aid – insieme ad associazioni e gruppi di diritti umani locali come Gamcotrap – per evitare il passo falso che avrebbe dato al Gambia il triste record di essere il primo Paese al mondo a fare marcia indietro in tema di MGF. Sarebbe stato un infelice e indecoroso primato, indubbiamente. Che magari avrebbe agito come un detonante nelle intenzioni di altre forze conservatrici della società subsahariana.

La pratica delle mutilazione genitale femminile, infatti, è principalmente diffusa in Africa al di là del Sahara – soprattutto ma non esclusivamente in popolazioni musulmane – ma è presente anche in alcuni Paesi arabi, in Asia e in alcune zone dell’America Latina. Secondo l’ONU, la MGF coinvolge 230 milioni di bambine, giovani donne e ragazze in tutto il mondo e, nonostante sia stata vietata in almeno 70 nazioni, in queste stesse viene comunque praticata in modo clandestino. Purtroppo è anche il caso del Gambia.

Per l’UNICEF, il 76% di donne tra i 14 ed i 59 anni è passato per questa pratica. Nel piccolo Stato nordoccidentale, infatti, le MGF vengono ancora praticate in sordina: molta complicità tra famiglie, nessuna denuncia, nessuna condanna. Fino alla scorsa estate, quando è arrivata la prima condanna verso due madri e un’altra donna, l’ addetta all’operazione di mutilazione, ad un anno di carcere e ad una multa di poco più di 200 euro ciascuna per avere sottoposto otto bambine a questa consuetudine.

L’applicazione della legge vigente, un fatto inedito, ha provocato la suscettibilità di un gruppo di religiosi conservatori capeggiati dall’Imam radicale Fatty e del deputato reazionario Sulayman Saho. È a quest’ultimo che si deve la presentazione del disegno di legge abrogativo, a Marzo, mentre il leader religioso aveva assicurato la cauzione delle condannate e incitato la popolazione gambiana a non lasciarsi intimorire nel seguire la propria tradizione. “Se tutti ci mettiamo d’accordo nel continuare a praticare le ablazioni e lo facciamo alla luce del sole – aveva incoraggiato Fatty – il Governo non potrà incarcerare l’intera Nazione”.

La legge di abrogazione era stata presentata nella convinzione di preservare “Una pratica culturale e religiosa con radici molto profonde” ed era passata con 42 approvazioni, 4 voti contrari ed un’astensione. Da quel giorno di metà Marzo si è aperto un dibattito tra la società civile e la classe politica, che ha visto mobilitati, come dicevamo, Ong, associazioni e gruppi di attivisti per la tutela dei diritti umani. La vittoria è arrivata a Luglio, con la chiusura del procedimento legislativo ed il monito, da parte di Jatta a “non fare perdere ulteriore tempo al Parlamento con un nuovo dibattito”.

Una conclusione netta, che lascia ben sperare per il futuro della nazione e, soprattutto, delle gambiane. Eppure c’è ancora molta strada da fare: data la legge, l’applicazione della medesima, come abbiamo visto, è tutt’altro che scontata. Ne sono ben consapevoli i collettivi di attivisti: “Dobbiamo garantire che questa legge venga effettivamente applicata. Ci sono voluti otto anni dalla sua entrata in vigore per ottenere una condanna nonostante il fatto che la MGF fosse praticata impunemente. Questo non dovrà più succedere

Nel dicembre 2015, il Parlamento gambiano ha approvato un emendamento al Gender Act (Women’s Act) del 2010 per includere due articoli che criminalizzano la mutilazione genitale. Sono state così stabilite condanne fino a tre anni e una multa di quasi 800 euro sia per chi la pratica, sia per chi “la richiede, incita o la promuove fornendo strumenti o con qualsiasi altro mezzo“. Inoltre, è previsto l’ergastolo se le conseguenze della recisione portano alla morte. Infine, quanti siano a conoscenza del reato ma non decidessero di non denunciarlo sono multabili con oltre 150 euro.

Malgrado l’approvazione della legge risalga ormai a parecchi anni fa, secondo l’UNICEF il Gambia è rimasto indietro nell’eradicare concretamente la pratica. Il dibattito degli ultimi mesi e la conferma parlamentare serviranno per avviare una trasformazione culturale?

Articolo a cura di Sara Gullace

Immagine di copertina via Wikimedia, licenza Creative Commons

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